La virtù dell’epicheia. Teoria, storia e applicazione (I). Dalla Grecia classica fino a F. Suárez (1997)*
Angel Rodríguez Luño
Sommario: I. Introduzione. II. L’epicheia nella Grecia classica. 1. Platone. 2. Aristotele. 2.1 L’Etica Nicomachea. 2.2 Il Commento tomista all’Etica Nicomachea. 2.3 La Retorica. 2.4 L’interpretazione ermeneutica di H.G. Gadamer. 3. Il periodo ellenistico. III. L’epicheia nella tradizione morale cattolica fino al De Legibus di F. Suárez. 1. Epicheia greca ed epicheia cristiana. 2. Sant’Alberto Magno. 3. San Tommaso d’Aquino. 3.1 La quaestio 96 della Prima Secundae. 3.2 La quaestio 120 della Secunda Secundae. 3.3 Il Commento del Cardinale Gaetano. 4. La tradizione volontaristica. 5. Francisco Suárez. 5.1 Il libro II De Legibus. 5.2 Il libro V De Legibus. 5.3 Il libro VI De Legibus. 5.4 Il libro X De Legibus.
I. Introduzione
Se è vero che molti aspetti storici e sistematici concernenti l’epicheia sono stati chiariti negli studi pubblicati negli ultimi sessanta anni[1], sembra innegabile tuttavia che sussistono ancora dubbi e discussioni per quanto riguarda l’interpretazione etica di fondo dell’epicheia e la sua applicazione a singoli problemi morali. Ciò si è reso palese già dopo la pubblicazione dell’enciclica Veritatis splendor[2]. Successivamente, in occasione della Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 14 settembre 1994[3], il problema è stato riproposto in termini molto concreti, giacché alcuni studiosi hanno obiettato che sulla base dei principi dell’epicheia e dell’aequitas canonica sarebbe stato possibile raggiungere una soluzione diversa per il suddetto problema morale e pastorale[4].
Il presente studio intende essere un contributo all’approfondimento complessivo del concetto e dell’applicazione dell’epicheia[5]. Data l’ampiezza della materia, pubblichiamo il nostro lavoro diviso in due parti. La prima inizia con la Grecia classica e finisce con lo studio del De Legibus di F. Suárez. È il periodo forse più creativo, nel quale vengono messe le basi di quanto la manualistica tramanderà per molti anni. La seconda parte, che sarà pubblicata nel prossimo fascicolo di questa stessa rivista, prenderà lo spunto dal Cursus Theologicus dei Salmanticensi e arriverà fino ai nostri giorni, quando, nel contesto dei grandi dibattiti sul rinnovamento della morale, sono state avanzate nuove ipotesi sulla natura e sul ruolo dell’epicheia. Solo dopo aver cercato di capire che cosa è e come è stata usata l’epicheia nella tradizione morale cattolica, affronteremo, nell’ultima sezione della seconda parte di questo studio, il problema morale concreto dei fedeli divorziati risposati. In questo modo si intende evitare che l’oggettività dello studio storico e sistematico possa venir intaccata dall’insieme di emozioni e reazioni che un problema pastorale così delicato e vivamente sentito tende giustamente a suscitare.
Allo scopo di chiarire la problematica etica di fondo dell’epicheia, ci soffermeremo sullo studio diretto degli autori e dei testi che consideriamo più significativi. Per completezza verrà data notizia anche di aspetti storici di minore rilevanza, servendoci a tale scopo degli ottimi studi storici esistenti.
II. L’EPICHEIA NELLA GRECIA CLASSICA
Il termine e il concetto stesso di epicheia (ejpieivkeia) ha la sua origine nella Grecia classica, e perciò lo studio delle fonti letterarie greche è indispensabile. Si trovano precisi riferimenti in autori molto distanti tra loro come Gorgia e Aristotele, Tucidide e Plutarco, Esiodo ed Euripide, nonché nel vasto materiale papiraceo esistente. L’analisi di queste fonti mette in luce la complessità semantica del termine epicheia, che non è necessario studiare particolareggiatamente in questa sede[6]. Per il nostro scopo è sufficiente lo studio dei passi aristotelici considerati comunemente come il locus classicus del concetto di epicheia. Riteniamo conveniente tuttavia dedicare alcuni cenni a Platone e allo stoicismo.
1. Platone
Quando è usato in senso generico, il termine ejpieivkeia possiede in Platone un significato ormai stabile, il quale non permette però una traduzione univoca in lingua italiana; a seconda dei contesti, infatti, dovrà essere tradotto con “equità”, “convenienza” o “moderazione”[7]. Per quanto riguarda la problematica dell’epicheia in senso specifico sono importanti due passi: Politico 294 a-301 a, e Leggi, VI, 757 a ss. In entrambi il problema viene collocato in un contesto politico.
Veniamo in primo luogo al Politico. Con parole di Jaeger, la tesi centrale di questo dialogo è che «il perfetto monarca sarà sempre da preferire alla più perfetta legislazione, perché la legge irrigidita nella scrittura non si può adattare con sufficiente prontezza al mutar delle situazioni e non permette perciò di fare nel necessario momento ciò che è veramente necessario»[8]. Mentre si muove sul piano ideale, Platone è convinto dei limiti delle leggi scritte che, essendo generali, non possono «attribuire con precisione a ciascun individuo ciò che gli conviene»[9]. Il governante perfetto, invece, è egli stesso ejpieikhv", e perciò dove si trova un governante perfetto diventa superflua sia la giustizia legale sia l’ipotesi di una libera esplicazione nel suddito di una virtù speciale quale sarà l’epicheia aristotelica. Ma Platone sa che, sul piano reale, è difficile trovare un governante perfetto, e sa che è quasi impossibile prevedere tutti i possibili casi concreti. L’ideale platonico implica inoltre il rischio di cadere sotto il dominio di incompetenti e crudeli tiranni. Perciò Platone conclude affermando che il governo delle leggi è sul piano reale la migliore soluzione politica. Pur nei limiti derivati dal loro carattere generale, le leggi devono essere fatte rispettare con rigore assoluto, senza eccezioni di sorta[10]: «Io credo, infatti, che contro le leggi stabilite sulla base di una lunga esperienza e per consiglio di uomini che le hanno meditate con cura nei singoli particolari e che hanno persuaso la popolazione a promulgarle, chi osasse agire contro questi leggi, commetterebbe un errore, sconvolgendo ogni attività in misura ancora maggiore di quanto facciano le leggi scritte»[11].
Assai difficile e controversa è l’interpretazione di Leggi, VI, 757 a ss. Il discorso verte sull’eguaglianza dei cittadini nei confronti dello Stato. C’è un’eguaglianza (o giustizia) materiale, che consiste nel dare e pretendere lo stesso da tutti. C’è un’altra eguaglianza, che è «vera e ottima», ed è l’eguaglianza proporzionale: «essa attribuisce a chi è di più, di più e a chi è di meno, di meno, dando in giusta misura secondo la natura di ognuno»[12]. Discernere questa seconda e ottima forma di eguaglianza è molto difficile, «corrisponde al giudizio di Zeus»[13]. E subito aggiunge che, purtroppo, «non c’è Stato che non sia costretto a ricorrere a compromessi su questi significati di giustizia, se non vuole essere sconvolto da endemiche sommosse. In effetti, l’egualitarismo (ejpieike;") e l’indulgenza (xuggnwvmon) non sono che infrazioni della perfezione e della purezza della giustizia»[14].
Autori come Egenter e Müller interpretano questo passo nel senso di una sconfitta del diritto di fronte al non governabile individuale[15]. Hamel da parte sua vede in esso un segno di evoluzione rispetto alla posizione finale del Politico; e così scrive: «In praxi tamen, concedit Plato, deviationes a vero iure et a vera iustitia acceptandae sunt. Coram casibus singularibus, lex generalis saepe cedere debet de iure suo. Illa exceptio et deviatio est epikeia»[16]. D’Agostino ritiene invece che un’analisi accurata del testo platonico evidenzia che queste interpretazioni, e particolarmente quella di Hamel, non sono corrette. L’egualitarismo (l’epicheia nel testo delle Leggi) si oppone alla divkh (giustizia), e non ai novmoi (alle leggi). Corrisponderebbe alla divkh un novmo;" individualizzante, non generalizzante, che potrebbe essere attuato solo da un governante perfetto. «Proprio la tensione verso un’eguaglianza individualizzata ci conforta a ritenere che per Platone il vero opposto dell’ideale non fosse l’individuale, ma quel generale che trova espressione sclerotizzata e priva di forza vivente nella legislazione, e poco importa ora se in qualche modo la legislazione venga riconosciuta indispensabile da Platone sul piano empirico, ed anche, come nel Politico, tutelata duramente. È questo l’equivoco che va tolto di mezzo risolutamente: nel passo preso in considerazione non siamo in presenza di un adattamento al particolare, ma al generale: e la forzata concessione ai desiderata della massa serve a riaffermare e contrario la validità del principio individualizzante»[17], vale a dire, dell’ottima eguaglianza proporzionale.
La differenza di quest’interpretazione riguardo a quella proposta da Hamel può sembrare sottile, ma è assai importante. Platone si lamenta dal fatto che nella pratica la vera giustizia, che è adeguata al singolo, sia costretta a cedere il passo alle leggi generali che al singolo non si adeguano perfettamente. Da questa prospettiva è chiaro che non può dire in modo alcuno che per adeguarsi al singolo siano da accettare «deviationes a vero iure et a vera iustitia»: nell’adeguamento al singolo sta appunto per Platone la vera giustizia. La traduzione a cura di Reale sembra rendersi conto dell’equivoco, e perciò in questo caso traduce ejpieike;" con “egualitarismo”. Comunque è un fatto che nelle Leggi Platone si mostra ostile a ogni innovazione, e come nel Politico raccomanda anche qui il rispetto delle leggi senza eccezioni[18].
Possiamo dire, in sintesi, che Platone è consapevole dei limiti che hanno le leggi politiche in virtù del loro carattere generale, e nel contempo manifesta una viva sensibilità verso il valore della singolarità. Ma è anche vero che «in Platone si determina per la prima volta con chiarezza un certo riserbo verso le possibilità (teoricamente anche eversive) che l’individualizzazione può causare [...] Ciò non significa, come si è visto, mancanza di comprensione per l’elemento singolo: ma certamente sfiducia verso quell’individualizzazione che perseguita arbitrariamente non può che cadere nell’individualismo»[19]. È da rilevare ugualmente che la figura dell’epicheia come virtù esclusiva del governante, ben diversa dalla virtù morale propria dell’uomo in quanto tale che sarà prospettata da Aristotele, rappresenta un’alternativa destinata a riproporsi lungo la storia del pensiero etico occidentale, come avremo occasione di vedere in questo studio.
2. Aristotele
Lo studio aristotelico dell’epicheia costituisce senza dubbio un momento culminante della storia di questo concetto. E ciò va affermato non solo perché tale studio è il più classico e il più organico, ma anche perché il suo influsso sulla tradizione morale cattolica è stato determinante. I testi principali da studiare sono due: l’Etica Nicomachea, libro V, 1137 a 31-1138 a 3 e la Retorica, libro I, 1374 a-1375 b. Anche la Grande Etica, II, 1198 b -1199 a contiene un ampio riferimento, sul quale però non sembra necessario soffermarsi specificamente, dato che non contiene aspetti sostanzialmente nuovi.
2.1 L’Etica Nicomachea
L’esatta comprensione del testo che stiamo per studiare richiede che si dica qualche cosa sul contesto costituito dall’Etica Nicomachea. Non è necessario insistere sul fatto, da tutti conosciuto, che Aristotele possiede una concezione del sapere etico e politico ben diversa da quella platonica. Conviene invece segnalare che l’etica aristotelica è la prima e la più classica edizione di un’etica della vita buona e delle virtù, cioè di ciò che oggi viene chiamato «etica della prima persona»[20].
Un’etica delle virtù in senso tecnico, quale è l’etica aristotelica, non è semplicemente un’etica che assume le virtù morali come schema classificatorio dei problemi etici da studiare. L’etica delle virtù è un preciso e specifico modo di concepire il sapere e la vita morale, alternativo a tutti gli altri, e che è caratterizzato: a) da una teoria della ragione pratica, dei suoi principi, delle sue condizioni e della sua attività; b) da una propria teoria dell’azione; c) e da un modo particolare di intendere il ruolo della norma e il suo rapporto con le virtù morali in quanto principi pratici[21]. Naturalmente, queste caratteristiche rispondono a dei precisi presupposti antropologici, ontologici e — in teologia morale — anche teologici. Su queste considerazioni dovremo ritornare più avanti, perché si riveleranno decisive per capire correttamente il concetto di epicheia. Adesso basta tener presente che esso è originariamente un concetto caratteristico di un’etica delle virtù, come sono in generale le etiche greche. Qualora esso venisse impiegato in un contesto etico diverso da quello originario, è probabile che emergano delle aporie di diverso tipo[22].
Aristotele si occupa dell’epicheia verso la fine del libro V dell’Etica Nicomachea, libro dedicato alla giustizia. Si vuole determinare il rapporto tra l’epicheia e la giustizia, giacché se «si esaminano attentamente, risulta manifesto che non sono senz’altro la stessa cosa e che tuttavia non differiscono di genere»[23]. Aristotele sembra trovarsi davanti ad un’aporia: «ci appare strano che l’equo (to; ejpieike;"), che è qualcosa di ulteriore rispetto al giusto, sia tuttavia degno di lode: infatti, se sono diversi, o il giusto non è buono o l’equo non è giusto; o se entrambi sono buoni, essi sono la stessa cosa». Per risolvere l’aporia, Aristotele spiega che cosa è veramente l’epicheia in un passo che riportiamo interamente:
«Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì giusto, ma non il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale (ejpanovrqwma nomivmou dikaivou). Il motivo è che la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente in universale. Nelle circostanze, dunque, in cui è inevitabile parlare in universale, ma non è possibile farlo correttamente, la legge prende in considerazione ciò che si verifica nella maggioranza dei casi, pur non ignorando l’errore dell’approssimazione. E non di meno è corretta: l’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma nella natura della cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica. Quando, dunque, la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in senso assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’equo: un correttivo della legge (ejpanovrqwma novmou), laddove è difettosa a causa della sua universalità. Questo, infatti, è il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sono dei casi in cui è impossibile stabilire una legge, tanto che è necessario un decreto. Infatti, di una cosa indeterminata anche la norma è indeterminata, come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo: il regolo si adatta alla configurazione della pietra e non rimane rigido, come il decreto si adatta ai fatti. Che cosa è dunque l’equo, e che è giusto e migliore di un certo tipo di giusto, è chiaro. Da ciò risulta manifesto anche chi è l’uomo equo: è equo infatti chi è incline a scegliere e a fare effettivamente (oJ gavr tw`n toiouvtwn proairetiko;" kai praktikov") cose di questo genere, e a chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge. Questa disposizione (hJ evJxi") è l’epicheia, che è una forma speciale di giustizia e non è una disposizione (ti” evJxi") di genere diverso»[24].
Soffermiamoci ora sugli elementi più importanti del testo. Verso la fine abbiamo notato due volte l’uso del termine evJxi" (in latino: habitus) associato al vocabolo proairetiko;" (in latino: electivus). Se teniamo conto che Aristotele definisce la virtù morale come evJxi" proairetikhv[25], che S. Tommaso traduce con habitus electivus[26], è fuori dubbio che Aristotele intende l’epicheia come una virtù morale in senso rigoroso. Ciò significa che essa non è l’interpretazione della legge fatta dal legislatore o dal giudice quando i termini della legge sono oscuri, e non è neppure ciò che noi chiamiamo dispensa. L’epicheia è una virtù morale dell’uomo, di ogni uomo e non specificamente del governante. L’epicheia è una disposizione dell’uomo virtuoso, vale a dire, una delle virtù del ben vivere o della vita buona. Da ciò segue che l’epicheia non è, sul piano sostanziale, qualcosa di meno buono o di meno rigoroso che, in alcuni casi, tenute presenti le circostanze, può essere più o meno tollerato. L’epicheia come virtù è il principio che permette la formazione di una scelta non solo buona, ma addirittura virtuosa, e quindi eccellente e ottima[27]. Perciò dice Aristotele che «l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto». Quando si presenta il caso, l’epicheia non è qualcosa che può essere benevolmente invocata, ma è il principio necessario dell’unica scelta che, in quel caso, è giusta e virtuosa; senza di essa la scelta sarebbe stata moralmente negativa. Aristotele presenta l’epicheia come perfezione e coronamento della giustizia, e non come una tecnica interpretativa per diminuire le sue esigenze etiche.
Aristotele definisce l’epicheia come un correttivo della legge, laddove la legge è difettosa a causa della sua universalità. Tre cose importanti sono da notare in questa definizione. La prima è che Mazzarelli traduce ejpanovrqwma con “correttivo”. V. Frosini traduce invece con “correzione e supplemento”[28]. D’Agostino preferisce tradurre con “direzione”. Egli ritiene che «l’esatta accezione di ejpanovrqwma si impoverisce se il termine viene tradotto con correttivo [...]: infatti Aristotele stesso sottolinea che il problema non è correggere un errore insito nella legge, ma dirigerla a una giusta applicazione al caso. Giustamente quindi la prima versione latina dell’Etica Nicomachea, dovuta a Roberto Grossatesta, rendeva ejpanovrqwma con directio»[29].
È da rilevare in secondo luogo che ciò che viene corretto o diretto nella sua applicazione è la legge o il giusto legale. Aristotele non precisa altro, ma sembra chiaro che egli intende riferirsi alle leggi della polis, fatte dai legislatori umani, il che non toglie che in queste leggi si esprimano anche valori etici. Va detto infine che l’epicheia si applica a leggi difettose a causa della loro universalità. Questo difetto si verifica quando «la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale». Sembra chiaro ciò che Aristotele intende affermare: può succedere che un comportamento, materialmente descritto, coincida con quello contemplato dalla legge, ma che in realtà non rientri affatto in essa. In questo caso l’epicheia evita l’ingiustizia che si produrrebbe quando un’azione venisse regolata o addirittura punita sulla base di una norma sotto la quale l’azione non rientra. Si potrebbe aggiungere che una tale ingiustizia normalmente provoca, in colui che la subisce, dolore, disagio o malcontento, e così il dolore, il disagio o il malcontento possono essere segno dell’ingiustizia. Ma, in senso rigoroso, l’epicheia è una virtù che permette di agire con giustizia in quei casi, e non un semplice espediente per evitare l’osservanza di una legge solo perché tale osservanza risulta difficile. Su questo punto si tornerà più avanti a proposito di Suárez.
C’è da chiedersi inoltre a quali criteri si ispira l’epicheia per applicare correttamente la legge nei casi in cui non sarebbe giusto applicarla letteralmente. Aristotele afferma unicamente che allora è legittimo «considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione». Ciò sembra costituire un richiamo all’intenzione del legislatore e alla ratio iustitiae che ispira la legge. Tra gli studiosi, l’opinione un tempo più in voga era che l’epicheia si rivolge alle norme superiori del diritto naturale (così Fechner, Zeller, Wittmann e Egenter); altri ritengono invece che l’epicheia si rivolge piuttosto alla realtà non predeterminabile e al naturale sentimento di ciò che è giusto[30], oppure all’intrinseca necessità razionale della legge[31].
Le ultime righe del testo in esame mirano alla determinazione caratteriologica dell’uomo che possiede l’epicheia: «non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio[32], ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge». Commenta D’Agostino: «Il passo ha — si può dire da sempre — suscitato delle perplessità: si è vista una duplicità di posizione nella dottrina di Aristotele, il tentativo di accordare una visione dell’ejpieivkeia come momento dinamico del diritto (e quindi formale o meglio coesteso alla sua struttura) con una visione materiale, da identificarsi con valori extragiuridici, quali la convenienza, l’umanità, la ragionevolezza»[33]. Lo stesso problema è segnalato dal Riley[34]. Il problema potrà essere approfondito ulteriormente, anche se altri testi aristotelici fanno pensare che il problema va considerato in una prospettiva di diritto privato, dove una persona può non esigere ad un’altra il proprio diritto interamente per un senso di indulgenza.
2.2 Il Commento tomista all’Etica Nicomachea
S. Tommaso si occupa del testo aristotelico che stiamo studiando nella lectio 16 del libro V del suo Commento. Siccome il testo tomista è impostato secondo i canoni del commento letterale medievale, riportiamo in modo molto breve quanto è semplice conferma del testo aristotelico, e ci soffermiamo solo sugli aspetti più originali.
S. Tommaso conferma che l’epicheia è un habitus, una virtù, e concretamente «est quaedam species iustitiae, et non est alius habitus a iustitia legali»[35]. Seguendo la traduzione latina su cui lavora, S. Tommaso spiega che il compito dell’epicheia è la directio iusti legalis[36], afferma inoltre che «per epiichiam aliquis excellentiori modo obedit, dum observat intentionem legislatoris ubi disonnat verba legis»[37], e come Aristotele ritiene che il difetto non è proprio della legge in se stessa considerata, ma piuttosto deriva dal fatto che di certe materie non è possibile parlare in termini universali con totale esattezza[38].
Il punto in cui S. Tommaso sembra aggiungere qualcosa è il suo richiamo al diritto naturale, del quale parla Aristotele nello stesso libro V. «Verum est enim quod id quod est epiiches est quoddam iustum et est melius quodam alio iusto: quia, ut supra dictum est, iustum quo cives utuntur dividitur in naturale et legale: est autem id quod est epiiches melius iusto legali, sed continentur sub iusto naturali. Et sic non dicitur melius quam iustum, quasi sit quoddam aliud genus separatum a genere iusti. Et cum ambo sint bona, scilicet iustum legale et epiiches, melius est illud quod est epiiches»[39].
S. Tommaso propone alcuni esempi, tratti dai commenti greci del testo aristotelico, e che sono diventati classici. «Sicut reddere depositum secundum se iustum est et ut in pluribus bonum; in aliquo tamen casu potest esse malum, puta si reddatur gladius furioso»[40]. Più avanti: «Sicut in quadam civitate statutum fuit sub poena capitis quod peregrini non ascenderent muros civitatis, ne scilicet possent dominium civitatis usurpare. Hostibus autem invadentibus, peregrini quidam ascendentes muros civitatis defendunt civitatem ab hostibus, quos tamen non est dignum capite puniri. Esset enim contra ius naturale ut benefactoribus poena rependeretur. Et ideo secundum iustum naturale oportet hic dirigere iustum legale»[41]. Si vede come l’epicheia, nel primo caso, evita qualcosa di moralmente negativo e, nel secondo, evita di andare contro il diritto naturale. L’applicazione della legge positiva va regolata secondo il diritto naturale. In questa ottica, l’epicheia non è qualcosa che si può benevolmente applicare, ma va necessariamente applicata. Ciò è richiesto dalla giustizia e dall’ordine morale[42].
Non manca il riferimento all’atteggiamento proprio del virtuoso: «et dicit quod talis non est acribodikaios, idest diligenter exequens iustitiam ad deterius, idest ad puniendum, sicut illi qui sunt rigidi in puniendo, sed diminuunt poenas quamvis habeant leges adiuvantem ad puniendum. Non enim poenae sunt per se intentae a legislatore, sed quasi medicina quaedam peccatorum. Et ideo epiiches non plus apponit de poena quam sufficiat ad cohibenda peccata»[43]. Neanche qui si può evitare l’impressione di duplicità. Si passa ad un altro argomento, specificamente ad una tematica di diritto penale. Negli esempi prima riportati non si tratta di essere mite nel punire, o di non punire più di quanto basta per reprimere i peccati, ma di situazioni nelle quali punire sarebbe stato moralmente cattivo e intrinsecamente ingiusto, in quanto sarebbero state punite azioni che in realtà non rientravano nella legge che stabiliva la pena. In ogni caso, S. Tommaso propone riflessioni di notevole interesse per il diritto penale.
2.3 La Retorica
Nel libro I della Retorica Aristotele si occupa a più riprese dell’epicheia. Sono passi di interpretazione non facile, soprattutto perché rendono difficile la lettura unitaria del discorso aristotelico. Forse per questo sono spesso trascurati dagli studiosi. Il passo del libro I, 15, 1375 a 25 ss. pone problemi interpretativi riguardanti il concetto aristotelico di diritto naturale, ma resta in realtà fuori dell’oggetto del nostro studio. Maggiore interesse presenta per noi il passo 1374 a-b:
«L’equo (to; ejpieikev") sembra essere giusto, ma esso è il giusto che va oltre la legge scritta. Ciò avviene in parte per volere dei legislatori, in parte non per loro volere: il secondo caso è quando sfugge loro qualcosa, il primo quando essi non possano prescrivere esattamente, ma sia necessario dare una formula generale, che non vale universalmente, ma solo per lo più [...]
Essere equi significa essere indulgenti verso i casi umani, cioè badare non alla legge, ma al legislatore, e non alla lettera della legge, ma allo spirito del legislatore; e non all’azione ma al proponimento, e non alla parte ma al tutto, e non a come è ora l’imputato, ma come è stato sempre o per lo più. E anche il ricordare di più il bene che si è ricevuto che non il male, e il bene che si è ricevuto più di quello che si è fatto. E il sopportare l’ingiustizia. E il voler giudicare con la parola piuttosto che con l’azione; e preferire un arbitrato piuttosto che una lite in tribunale; infatti l’arbitro bada all’equità, il giudice alla legge; e l’arbitrato è stato inventato proprio per questo, per dar forza all’equità»[44].
La prima parte del testo distingue due casi. Il secondo caso corrisponde a quello studiato nell’Etica Nicomachea. Il primo, invece, sembra considerare l’epicheia non più come direzione del giusto legale, ma come fonte giuridica suppletiva idonea a colmare le lacune dell’ordinamento legale, in stretto legame con l’arbitrato. Da questo punto di vista il testo della Retorica è stato rivalutato in Italia dal Frosini. È importante notare — scrive questo autore — che «Aristotele mostra di voler dare dell’equità una interpretazione propriamente ‘giuridica’, e non già astrattamente etica (come pure è stata intesa non di rado l’equità). Si può dire che, in definitiva, egli distingua le leggi scritte dalle leggi non scritte, e che riconosca il principio di valutazione giuridica, che è proprio delle seconde, nel principio della ‘equità’, che compendia per lui anche quelli della natura dei fatti, dei princìpi generali del diritto, e di altri ancora, cui possa farsi ricorso, per integrare le lacune di un ordinamento giuridico. L’equità è dunque per Aristotele il metodo di applicazione della legge non scritta. Essa è intesa perciò a rimediare a quella applicazione della legge, ‘che espelle dal proprio seno la giustizia, e si appaga della mera legalità’ (Piazzese), senza per questo che si debba fare ricorso alle norme del diritto naturale, che sarebbero anch’esse, comunque, delle norme, cioè delle regole generali, destinate ad infrangersi, senza potersi ripiegare, sulla dura pietra del fatto singolo da giudicare»[45]. L’aspetto sottolineato dal Frosini possiede un evidente interesse per la nozione giuridica di aequitas[46], ma in rapporto alla tradizione morale l’interesse è molto limitato, giacché in morale l’epicheia non è stata interpretata in questo senso. In morale viene vista come directio iusti legalis, e non come fonte suppletiva di diritto.
Sulla seconda parte del testo è da notare, da una parte, che sembra smentire l’idea del Frosini di una nozione di epicheia meramente giuridica, in quanto compaiono elementi irriducibili al mero diritto[47] e, dall’altra, che tali elementi richiamano l’idea platonica di epicheia come atteggiamento indulgente da parte del governante o del giudice, non facilmente armonizzabile in un discorso unitario con quanto detto da Aristotele nell’Etica Nicomachea sull’epicheia come virtù morale. Il problema può essere parzialmente risolto tenendo presente che la Retorica costituisce un contesto argomentativo attinente agli espedienti di oratoria presso i tribunali, molto diverso da quello dell’etica. Ma restano aperti altri problemi, che esulano dall’oggetto del nostro attuale studio[48].
2.4 L’interpretazione ermeneutica di H.G. Gadamer
H.G. Gadamer, uno dei principali esponenti attuali della filosofia ermeneutica, ritiene che i concetti aristotelici di phronesis e di epicheia hanno un importante punto di contatto con la sua proposta ermeneutica: sia i primi che la seconda implicano il compito dell’applicazione di un testo o di un significato universale alla situazione attuale dell’interprete[49]. Per questa ragione Gadamer si occupa della phronesis e dell’epicheia. Gadamer espone con profondità alcune caratteristiche della conoscenza pratica aristotelica, ma il contesto filosofico di Gadamer ha probabilmente ben poco in comune con la tradizione della morale cattolica[50]. Tuttavia sembra conveniente occuparci di lui, perché le linee generali della sua ermeneutica sono presenti, in diversa misura a seconda dei casi, nei teologi moralisti cattolici che seguono un’impostazione trascendentale[51].
Per Gadamer ogni comprensione implica una fusione di orizzonti, un particolare rapporto tra presente e passato. In questa prospettiva va collocata la tesi gadameriana secondo cui l’applicazione è una struttura essenziale della comprensione, nel senso che l’atto o il momento dell’applicazione è inevitabilmente presente in ogni interpretazione. L’uomo, nel comprendere, non può «prescindere da se stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova. Se vuol capire il testo, deve metterlo in rapporto proprio con questa situazione»[52]. Ma si faccia attenzione che Gadamer non intende dire che prima viene capito un testo (letterario, legislativo, biblico, ecc.) e poi viene applicato a una situazione particolare. La sua tesi è che l’applicazione rappresenta la vera comprensione del significato che un testo o un fatto storico possiede in se stesso[53]. «Il testo, sia esso la legge o la rivelazione divina, per essere compreso in modo adeguato, cioè conformemente al modo in cui esso stesso si presenta, deve venir compreso in ogni momento, ossia in ogni situazione concreta, in maniera nuova e diversa. Comprendere significa sempre, necessariamente, applicare»[54].
Lo sfondo teoretico della teoria gadameriana dell’applicazione è che la comprensione è un evento storico[55]. Viene presupposta l’appartenenza dell’interprete all’oggetto dell’interpretazione (circolo ermeneutico). L’interprete appartiene egli stesso al processo di trasmissione storica, e perciò, da un canto, l’atto di comprensione resta all’interno della storia degli effetti (Wirkungsgeschichte) del significato o del testo e, dall’altro, la comprensione del testo è sempre anche autocomprensione: la comprensione di se stesso, presupposta dall’atto di applicazione, è momento essenziale della comprensione dell’oggetto ermeneutico al quale il soggetto stesso appartiene. La comprensione è pertanto mediazione tra passato e presente, tra il testo e la situazione ermeneutica dell’interprete, oppure tra universale e particolare (universalità dell’identità ideale del testo o della legge giuridica e la particolarità delle situazioni entro le quali si verifica volta per volta la comprensione).
È appunto per esemplificare come si attua la mediazione tra universale e particolare che Gadamer si richiama all’etica aristotelica e in particolare al concetto di phronesis[56]. In questo concetto aristotelico troverebbe la sua soluzione il dilemma proprio dell’etica filosofica, vale a dire, il rapporto tra l’universalità della legge, che risponde alle esigenze del dovere assoluto e incondizionale, e la variabilità e molteplicità delle situazioni concrete, in cui si esprime la storicità della condizione umana. La phronesis, virtù intellettuale e morale allo stesso tempo, sarebbe l’esempio di un sapere, quale è anche quello ermeneutico, che non è puro e disinteressato (“oggettivo” nel senso scientifico-positivo del termine), giacché l’applicazione ne costituisce un momento essenziale. La phronesis non è applicazione logico-deduttiva di una verità universale ad un caso particolare; essa è invece sintesi, mediazione sempre storica di un’esigenza universale ad una situazione particolare. «Ciò che è giusto, per esempio, non è pienamente determinabile in modo indipendente dalla situazione in cui io devo operare giustamente»[57].
Interpretando il giudizio morale come una sintesi di logos e ethos —continua Gadamer — Aristotele avrebbe radiato dal sapere morale la pretesa di oggettività e incondizionalità sovra-storica, e nel contempo avrebbe dato in actu exercito il primo esempio di attenzione alla dimensione storica propria dell’umana conoscenza, dimensione che costituisce il problema fondamentale dell’ermeneutica. Il concetto aristotelico di epicheia sarebbe un modello di applicazione ermeneutica. E così scrive Gadamer:
«La condizione di colui che ‘applica’ la giustizia è del tutto diversa. È vero che anche lui dovrà, nel caso concreto, prescindere dall’esattezza rigorosa della legge. Ma quando ciò accade, non è perché non si può fare di meglio, bensì perché altrimenti non sarebbe giusto. Quando così ci si stacca dalla legge non si fanno dunque delle ‘riduzioni’ della giustizia, ma anzi si trova ciò che è più giusto. Aristotele esprime ciò nel modo migliore nell’analisi della epieíkeia, dell’equità, là dove dice che l’epieíkeia è la correzione della legge. Aristotele mostra che ogni legge implica una inevitabile disparità rispetto alla concretezza dell’agire, in quanto ha un carattere universale e non può contenere in sé la realtà pratica in tutta la sua concretezza [...] È chiaro che proprio qui trova posto il problema dell’ermeneutica giuridica. La legge è sempre manchevole, non perché sia imperfetta in se stessa, ma perché di fronte all’ordine che le leggi hanno di mira è la realtà umana che si mostra manchevole e non permette perciò una pura e semplice applicazione di esse»[58].
Questa interpretazione di Gadamer, che mi sembra corretta e penetrante in molti aspetti, tende ad assolutizzare l’uso dell’epicheia («la legge è sempre manchevole»), e ha come conseguenza la tesi che «il concetto di diritto naturale ha per Aristotele solo una funzione critica. Non si può fare di un tale concetto un uso dogmatico, cioè non si può attribuire a determinati contenuti del diritto la dignità e immutabilità del diritto naturale»[59]. Questa interpretazione di Aristotele mette in luce ciò che la comprensione e l’interpretazione è per Gadamer. Il ricorso all’etica aristotelica da parte di Gadamer è una scelta azzeccata, perché la conoscenza morale ha delle caratteristiche particolari (si ricordi la definizione tomista della verità pratica come conformità con l’appetito retto, e non come adeguamento dell’intelletto alla cosa), che la rendono idonea ad esemplificare il proposito generale della riflessione gadameriana. Si può dire senz’altro che questa lettura di Aristotele è pienamente coerente con i presupposti filosofici di Gadamer. Un’altra cosa è se essa sia coerente anche con i presupposti filosofici ed etici di Aristotele.
Soffermiamoci un momento sulla coerenza interna del discorso gadameriano. Come Gadamer spiega a proposito dell’interpretazione dell’opera artistica (si pensi ad un’opera musicale), non si può dire che sia una e solo una l’interpretazione giusta, perché le diverse interpretazioni costituiscono il processo storico che viene chiamato “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte), il cui soggetto è l’opera stessa, che in questo modo arricchisce il suo essere[60]. È coerente pertanto che Gadamer non tenti una (per lui impossibile) ricostruzione “oggettiva” di Aristotele, ma in realtà realizza (e, secondo lui, non può non realizzare) una mediazione. Ma allora si potrà obiettare (anche se per Gadamer il fatto non costituisce obiezione alcuna) che il pensiero di Aristotele viene forzato, non tanto per la lettura fatta del passo concreto sull’epicheia, che in sé è corretta, ma in quanto l’epicheia aristotelica viene vista come un tipo di applicazione o di mediazione che sarebbe impensabile prima di Hegel e di Heidegger.
Da un punto di vista generale si può osservare criticamente che Gadamer non sfugge ad una forma raffinata di storicismo, e così mette in pericolo la verità dell’interpretazione. Questo è il rilievo che gli è stato rivolto sul piano dell’ermeneutica giuridica da E. Betti[61]: «Ora a me pare che l’evidente punto debole del metodo ermeneutico proposto da Gadamer consiste in questo, che esso permette invero un’intesa tra testo e lettore — vale a dire una corrispondenza tra il senso del testo che si presenta in apparenza come ovvio e il soggettivo e personale convincimento del lettore —, ma non garantisce in nessun modo l’esattezza dell’intendere; per questo infatti occorrerebbe che la comprensione raggiunta corrispondesse in modo pienamente adeguato al significato oggettivo del testo quale oggettivazione dello spirito»[62]. Un rilievo simile, ma sul piano dell’ermeneutica letteraria, è stato formulato da E.D. Hirsch e da P. Szondi[63].
Da un punto di vista più specifico, occorre osservare che l’orizzonte etico di Gadamer è essenzialmente diverso da quello di Aristotele. Come si è detto sopra, per Gadamer il problema dell’etica filosofica sta tutto nel rapporto tra l’universalità della legge-dovere e la variabile molteplicità delle situazioni concrete. Aristotele si pone questo problema solo nell’ambito dello iustum politicum, vale a dire, delle leggi della polis. Nell’ambito propriamente etico, per Aristotele tutto dipende invece dalla vita buona e felice (fine ultimo dell’uomo) e dalle virtù del vivere bene. L’etica aristotelica, come quella tomista, è un’etica del fine ultimo e delle virtù, che oggi si chiama un’etica elaborata dal punto di vista della prima persona. La prospettiva di Gadamer, come in generale quella dell’etica moderna, è quella di un’etica degli atti e delle norme, che nel dibattito odierno viene denominata etica elaborata dal punto di vista della terza persona o dell’osservatore esterno[64].
Il fatto che l’etica moderna limiti la sua prospettiva alle azioni esterne e alle norme che regolano i rapporti interpersonali, abbandonando completamente il punto di vista della finalità, dipende dalla convinzione agnostica che non esiste un’unica risposta razionalmente valida al problema del bene ultimo dell’uomo. Così afferma Gadamer: «ho sottolineato che accetto completamente la kantiana critica della ragion pura e che considero quelle asserzioni che, solo in modo dialettico, risalgono dal finito all’infinito, dall’oggetto di esperienza all’essere in sé, dal temporale all’eterno, come pure espressioni di concetti limite, dalle quali la filosofia non può trarre alcuna autentica conoscenza»[65].
Per Gadamer non esiste una verità sul bene ultimo dell’uomo e, più in generale, sulle questioni esistenziali ultime, e perciò non è possibile individuare un insieme di esigenze necessarie di tale bene che, eticamente, avrebbero una validità assoluta e incondizionata. In questo contesto non è possibile ammettere l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi e di norme morali universalmente valide, e il concetto di epicheia e di applicazione viene impiegato in funzione di tale tesi. E così Gadamer afferma, come si è detto, che per Aristotele «non si può attribuire a determinati contenuti del diritto la dignità e l’immutabilità del diritto naturale»[66]. Abbiamo anche osservato che dal punto di vista dell’esegesi del testo aristotelico il problema è complicato, ma lo è soprattutto perché Aristotele esprime le esigenze veramente etiche in termini di virtù, e non di norma giuridica, e perciò dall’appena citata affermazione di Gadamer su Aristotele (che tuttavia sul piano esegetico è discutibile) non sarebbe possibile trarre in campo propriamente etico le conclusioni che Gadamer intende trarre. Gadamer non tiene conto che un modo di ragionare proprio di un’etica delle virtù non può essere trasferito automaticamente a un’etica delle norme senza alterarne profondamente il significato, e così Gadamer dà dell’etica aristotelica un’immagine vicina al relativismo che non risponde al pensiero di Aristotele[67].
In Aristotele, infatti, le cose stanno diversamente. Le virtù sono fini generali di validità assoluta e universale che, in quanto presenti stabilmente nei desideri dell’uomo virtuoso, permettono alla ragione pratica (prudenza) di individuare — quasi per connaturalità — l’azione concreta che hic et nunc può realizzarli. In questo contesto di concrezione prudente del fine desiderato grazie all’abito virtuoso si inserisce l’epicheia. Quando un’esigenza etica, che originariamente è un’esigenza di virtù, viene espressa attraverso una formulazione linguistico-normativa umana, che come tale può essere imperfetta, l’epicheia permette un perfetto adeguamento del caso concreto alla ratio virtutis. Il deposito va restituito perché restituirlo è un atto della virtù della giustizia. Nei casi eccezionali in cui restituire il deposito non è più un atto della giustizia, anzi sarebbe un atto contrario alla giustizia, la virtù dell’epicheia permette di arrivare al giudizio prudenziale che qui e ora non va restituito il deposito. L’uomo giusto (che possiede la virtù della giustizia) non può non rendersene conto. Se per esprimere questa realtà diciamo che le norme morali riguardanti la giustizia ammettono eccezioni, o che non hanno un valore universale, stiamo creando confusione, perché per Aristotele la norma etica assoluta è espressa in termini di virtù, e le virtù non ammettono eccezioni. L’epicheia è necessaria appunto perché — dica quel che dica la lettera della legge politica — la giustizia non ammette eccezioni. Come vedremo più avanti, è ovvio che Aristotele non poteva considerare l’esistenza di una legge morale divina rivelata, che è universale ma non per questo è imperfetta. Questo sarà uno dei temi da studiare quando l’epicheia diventerà una virtù morale cristiana.
L’ermeneutica gadameriana pone ulteriori problemi riguardanti la verità in generale, e non solo la verità morale, dal momento che non ammette che la filosofia ponga la verità delle cose in rapporto all’Intelligenza divina. Perciò la prospettiva gadameriana tende a dissolvere la verità delle cose nella molteplicità delle situazioni ermeneutiche umane, nella relatività delle diverse visioni del mondo storicamente condizionate. Per il nostro attuale lavoro basta aver mostrato che il concetto di epicheia quale virtù etica dell’uomo comune, quando è trasferito ad un contesto epistemologico, filosofico ed etico diverso e per molti versi incompatibile con quello aristotelico, risulta profondamente alterato nel suo significato e nella sua ragion di essere. Ciò si verifica, in gradi diversi, anche nei moralisti che seguono in teologia un’impostazione epistemologica trascendentale[68].
3. Il periodo ellenistico
La Stoa antica rifiuta il concetto di epicheia. La riflessione della Stoa antica è rigidamente ancorata al vivere secundum naturam, vale a dire, a un concetto di lex naturalis intesa come legge cosmica. In tale contesto l’individuale è irrilevante[69].
Un significativo mutamento avviene nella Stoa media. Cambiamenti culturali e politici, sui quali non è necessario soffermarsi adesso, spiegano che nella Stoa media, accanto alla lex naturalis (sempre intesa in senso stoico), vengano considerati i doveri derivati dal ruolo svolto dal singolo nella società umana. Riappare così l’epicheia come atteggiamento del principe e poi, in maniera derivata, come generale atteggiamento di clemenza. Come scrive D’Agostino, l’epicheia «nella cultura post-paneziana appare ridotta al ristretto ruolo di clemenza, considerata come kaqh~kon, un dovere che grava su chi dell’ejpieivkeia può disporre, e cioè sul principe. Ma da questa limitata accezione l’ejpieivkeia riesce a poco a poco a liberarsi, fino a giungere ad essere più genericamente intesa come una disposizione d’animo aperta all’umanità, senza dubbio molto nobile, ma filosoficamente poco pregnante»[70].
In Seneca l’epicheia appare pienamente assimilata alla clementia del governante. In tale contesto politico, Seneca distingue la clementia dalla misericordia. La prima è un atteggiamento conforme alla ragione, mentre la seconda è un vizio dei deboli. La misericordia è un vizio tipico dei vecchi e delle donne che, commosse dalle lacrime dei peggiori criminali, arriverebbero ad aprire le porte delle carceri[71]. Invece, la clementia del governante si oppone alla crudelitas, non alla severitas.
È chiaro che siamo in una linea di ragionamento forse vicina a Platone, ma molto distante da Aristotele. L’epicheia è vista come virtù del principe, non come virtù morale dell’uomo in quanto tale. Viene considerata in un contesto politico, talvolta limitato solo all’irrogazione della sanzione penale. Comunque, come osserva D’Agostino, «resta d’altra parte vero che la clementia non può essere identificata tout court con l’ejpieivkeia: il discorso di Seneca resta fondamentalmente troppo stoico per poter dar spazio a una considerazione autentica della realtà come individualizzata»[72].
III. L’EPICHEIA NELLA TRADIZIONE MORALE CATTOLICA FINO AL DE LEGIBUS DI F. SUÁREZ
1. Epicheia greca ed epicheia cristiana
Allo scopo del nostro lavoro, non sembra necessario realizzare un’indagine sulla Sacra Scrittura. Nel nostro tema essa non potrebbe non essere una semplice indagine filologica limitata, per quanto riguarda l’Antico Testamento, alla versione greca dei LXX. Accenniamo soltanto agli aspetti più importanti.
C’è da osservare in primo luogo che tra l’epicheia greca e l’epicheia cristiana esiste il rapporto di analogia che esiste generalmente tra le virtù etiche greche e le virtù etiche cristiane. Non è necessario né opportuno ripetere qui le considerazioni dei teologi medievali sulle virtù dei pagani, né affrontare il complicato tema del rapporto tra morale naturale e morale cristiana. Si può tuttavia notare che nel Cristianesimo il valore dell’individualità può ricevere una più completa fondazione nell’amore di Dio verso ogni singola persona umana, e ciò in un quadro in cui la legge naturale non è una rigida legge cosmica, ma una luce e una tendenza vitale partecipata da Dio agli uomini. Ci sono importanti elementi di novità.
Esistono alcuni studi sull’epicheia nella Sacra Scrittura[73]. Mi limito a notare, con D’Agostino, che «non è possibile infatti non nutrire alcuni dubbi sulla concezione ‘regale’ dell’ejpieivkeia come mite clemenza, che Karnack indubbiamente ritiene vada ricavata unicamente dai testi dell’Antico Testamento, ma che troppo simile resta alla concezione tardo-stoica della nostra virtù»[74]. Tutto fa pensare ad un errore di prospettiva più che ad una vera e reale consonanza.
2. Sant’Alberto Magno
L’epicheia entra nella cultura medievale nel 1240-50, con la traduzione latina dell’Etica Nicomachea realizzata da Roberto Grossatesta. Prima era conosciuto soltanto il testo aristotelico dei Topici VI, 3, 141a e anche l’aequitas della tradizione romanistica. Roberto Grossatesta non traduce mai il termine greco ejpieivkeia con quello latino di aequitas, limitandosi a latinizzare il termine greco. L’epicheia entra nel pensiero medievale in modo autonomo rispetto all’equitas romanistica e canonica. In una notula che accompagna la sua traduzione Roberto Grossatesta spiega: «Hoc nomen epieikeiae multas habet significationes. Significat enim studiositatem, id est virtuositatem et decentiam et moderationem et modestiam et amorem cognitionis sui ipsius qualis sit in virtute et prudentium et cognoscentium ipsum iudicium. Et significat virtutem cognoscitivam moderaminis legum, qualiter scilicet leges positae de his quae frequentius et in pluribus contingunt raro ut in paucioribus sed moderandum est earum rigor secundum circunstantias rarius accidentes, cuius rei exempla satis inferius patebunt»[75].
Sulla traduzione latina dell’Etica Nicomachea di Grossatesta ha lavorato S. Alberto Magno, che è stato il primo ad introdurre l’etica aristotelica nella teologia scolastica, operazione questa che ha ricevuto valutazioni molto contrastanti[76]. La riflessione albertina sull’epicheia contiene elementi che non è possibile rinvenire in S. Tommaso d’Aquino; concretamente: una maggiore accentuazione dell’elemento teologico, un più costante riferimento al Vangelo, e una maggiore apertura alle esigenze dell’individuale[77]. S. Alberto fece due commenti all’Etica Nicomachea, il primo in forma di quaestiones e il secondo in forma di parafrasi[78].
Sulla base di un’analisi etimologica[79], S. Alberto spiega che l’epicheia è una superiustitia. Nel secondo commento egli afferma che nell’uso comune l’epicheia è l’applicazione della vis rationis ai casi particolari, accentuando così il riferimento dell’epicheia alla recta ratio. In senso più specifico, l’epicheia attiene alla giustizia legale, operando quando «ex nimia variatione temporum et locorum legalia praecepta ad finem legislatoris servare non possunt: et in his superjustus qui epieikes vocatur elicit quod melius est ad finem legislatoris, praeceptum legis non attendens, sed finem praecepti, animo semper habens commune rationis principium quod est, quod ad finem aliquem institutum est, contra finem illum observari non debet»[80].
Nel primo commento S. Alberto afferma che il compito dell’epicheia è dirigere la giustizia legale. «Iustitia enim legalis regulatur in suis operibus secundum praecepta legis, sed ubi lex deficit in particularibus casibus, quae universaliter promulgata est ad plura respiciens, epieikes quis operatur rectum per seipsum et supplet defectum legis»[81]. Il virtuoso opera così “rectum per seipsum”. Aristotele diceva che l’epicheia mira ad un diritto migliore. S. Alberto interpreta che l’epicheia è migliore della giustizia legale, ma non certo dello «jus naturale, quod secundum naturam rei justum est et ubique eamdem habet potentiam»[82]. S. Alberto ritiene un punto fermo che l’epicheia va ricondotta al diritto naturale, e così si ricollega con la tradizione cristiana (S. Isidoro di Siviglia), distaccandosi probabilmente da Aristotele[83]. S. Alberto precisa il suo pensiero spiegando che si può parlare di un «directivum justi secundum essentiam» e di un «directivum justi secundum esse»[84]. Tale distinzione non risulta essenziale per il nostro lavoro. È importante notare invece che S. Alberto si muove completamente sulla scia aristotelica quando afferma che l’epicheia è una virtù morale dell’uomo in quanto tale, e non del governante o del legislatore.
Può avere qualche interesse esaminare gli esempi presentati da S. Alberto, che egli dichiara di prendere dal commento all’Etica Nicomachea di Michele di Efeso. I tre esempi sono i seguenti: a) «lex praecipit pignus reddendum et epieikes, si esset furiosus, cuius gladium in pignore habet, non redderet»; b) «lex praecipit, ne peregrini ascendant murum civitatis, si tyrannus invadat civitatem; epieikes, etiam, si sit peregrinus, ascendet ad defensionem civitatis et interficiet tyrannum et non punitur, sed premiatur»; c) «lex praecipit non adulterandum, sed epieikes committit adulterium cum uxore tyranni, ut contrahat familiaritatem et possit tyrannum interficere»[85]. I due primi esempi sono diventati classici nella tradizione scolastica e manualistica. Il terzo, invece, è problematico. Lo stesso S. Alberto aggiunge in seguito un sed contra, nel quale citando Rom 3, 8 chiarisce che non può essere fatto il male affinché ne risulti il bene. Poi aggiunge: «de primis duobus exemplis non est dubium, in tertio autem possumus dicere, quod Commentator falsum dicit». E volendo salvare ipoteticamente il “Commentator” («si volumus eum sustinere») distingue che l’azione in parola può essere considerata «inquantum est civilis» e pertanto ordinata «ad bonum civilis», e «inquantum est divinus actus» e come tale ordinata «ad bonum divinum, quod est habere Deum et vitam aeternam». Dal secondo punto di vista l’adulterio non può essere accettato, ma qui il «Commentator loquitur civiliter»[86]. Emerge così la distinzione tra l’ambito civile, nel quale tale adulterio non sarebbe punito (ma il discorso albertino qui è tutt’altro che chiaro!), e l’ambito della legge divina, nel quale esso è inaccettabile. S. Tommaso d’Aquino reagisce in modo perentorio, senza accennare esplicitamente a S. Alberto, ma in riferimento al “Commentator” (Michele di Efeso), che è l’autore dell’esempio: «ille Commentator in hoc non est sustinendus: pro nulla enim utilitate debet aliquis adulterium committere, sicut nec mendacium dicere debet aliquis propter utilitatem aliquam, ut Augustinus dicit»[87].
Assai originale è lo studio dell’epicheia nei commenti di S. Alberto ai Vangeli. Il concetto di epicheia viene assimilato allo spirito anti-farisaico del Signore, e in particolare alla polemica intorno all’osservanza del sabato (Mc 2, 27). Viene sottolineata la mancanza di epicheia dei Farisei: come possono capire l’insegnamento del Signore coloro che «curam [...] habent de minimis ad quaestum pertinentibus et incuriam de maximis ad cultum Dei ordinatis?». Essi possono dirsi «optimi [...] aestimatores rerum qui magnam de minimis et nullam penitus vel parvam de maximis curam gerunt. Cadit asinum et habet sublevantem; perit anima et non est qui recogitet in corde suo»[88]. Vengono anche citati come esempi di epicheia il caso di Mattatia e quello di Davide che mangiò con i suoi compagni i pani dell’offerta.
Secondo Hamel l’introduzione del concetto di epicheia nei commenti biblici vorrebbe significare che per S. Alberto l’epicheia si applica anche alla legge divino-positiva, nel senso che in ogni precetto la nostra volontà si deve adeguare alla volontà divina, ma questo adeguamento deve darsi in fine praecepti et non in re praecepta[89]. È un problema sul quale ci soffermeremo più avanti. Ora si può osservare che il significato dell’uso del concetto di epicheia nei commenti biblici in S. Alberto non è così chiaro[90]. Si potrebbe pensare che S. Alberto intende mostrare Gesù come esempio del superiustus, e allora la sua intenzione sarebbe stata semplicemente quella di illustrare con esempi biblici o evangelici la dottrina aristotelica. Ma si può anche pensare che S. Alberto intende allargare e arricchire la prospettiva meramente aristotelica (riferimento all’intenzione del legislatore), vale a dire, mostrare che nei Vangeli esiste un nuovo aspetto dell’epicheia, non conosciuto da Aristotele, prospettando in questo modo una fondazione teologica dell’epicheia.
In questo senso — osserva D’Agostino — S. Alberto intende mostrare quale deve essere l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della legge secondo lo spirito evangelico. La legge di Cristo è divina ed è per l’uomo. «Ciò non significa, come un’affrettata interpretazione potrebbe far credere, che la legge sia a disposizione dell’uomo: le polemiche di Gesù contro il sabato, l’atteggiamento di Davide verso i pani del Tempio non significano altro se non che l’uomo deve comprendere che la volontà di Dio (o, se si vuole, la legge di Dio) è a favore (e non contro) l’uomo [...] Il momento teologico dell’epieikeia viene quindi a coincidere nella prospettiva albertina col momento della libertà cristiana nei rispetti della legge (che non significa — come già si è detto — affrancamento dell’uomo dalla legge); e proprio qui si situa l’originalità dell’apporto speculativo del maestro domenicano»[91].
Il momento della libertà in Aristotele era molto limitato. Nella prospettiva evangelica, invece, l’epicheia aiuta l’uomo a comprendere il vero senso della legge: essa è un aiuto dato da Dio per la salvezza dell’uomo, e possiede un autentico significato di liberazione. Anche se si tratta di riflessioni solo brevemente delineate da S. Alberto, questi avrebbe avuto il merito di aver posto le prime basi di una teologia dell’epicheia. «La novità concettuale dell’epieikeia cristiana si situa sullo stesso piano di novità che è proprio del diritto naturale cristiano: il ‘triangolo ideale’ di teologia, ragione e storia in cui si raccoglie la piena dimensione di questo (e sul quale ha giustamente insistito Ambrosetti) può ottimamente servire a identificare l’ambito di quella, confermandone così il carattere di momento analogico della lex naturae»[92]. Queste considerazioni di D’Agostino affrontano una tematica che assume connotati diversi a seconda che essa venga collocata in una prospettiva teologica generale o in una prospettiva specifica di etica normativa.
3. San Tommaso d’Aquino
S. Tommaso rappresenta uno dei momenti di maggiore perfezione e maturità della filosofia e della teologia medievale. Inoltre egli gode nella Chiesa Cattolica di un’autorità dottrinale del tutto singolare. La bibliografia sulla morale tomista è abbondantissima, e svariati sono i criteri ermeneutici proposti dai diversi autori. Tutto ciò rende doveroso concedere alla dottrina tomista sull’epicheia una maggiore attenzione.
Mi sembra necessario chiarire fin dall’inizio che esiste una certa evoluzione nella morale tomista[93], la quale costituisce nel suo momento di maturità l’espressione classica più compiuta di un’etica cristiana delle virtù. Va tenuto presente, da una parte, quanto è stato detto sopra (si veda sezione II, 2.1) sull’Etica Nicomachea e, dall’altra, che S. Tommaso, assumendo l’impostazione fondamentale di Aristotele, introduce in essa cambiamenti di notevole importanza. Si dovrebbe riflettere inoltre sul significato esatto del fatto che S. Tommaso nella Prima Secundae antepone il trattato delle virtù e dei vizi al trattato sulla legge, e che nella Secunda Secundae espone la morale speciale seguendo lo schema delle virtù, e non lo schema dei comandamenti o dei precetti. Va preso sul serio il fatto che per S. Tommaso le virtù sono le basi delle norme, e che una norma è giustificata quando esprime fedelmente le esigenze positive o negative della virtù, giacché il fine delle norme è quello di aiutare gli uomini a acquisire e praticare le virtù: «Quia praecepta ad hoc sunt ut secundum virtutem operemur et peccata vitemus»[94]. Ciò permette anche di capire che S. Tommaso concepisce la legge come un principio positivo. Il suo atteggiamento non è quello di colui che pensa alla legge come a un inevitabile limite della libertà. La legge è per l’Aquinate un principio di formazione della libertà umana in ordine al raggiungimento di una vita umana e cristiana ben riuscita all’interno di una comunità. La legge è il cammino verso la pienezza della vita cristiana.
3.1 La quaestio 96 della Prima Secundae
Non ci soffermiamo sulle considerazioni dedicate all’epicheia nel giovanile Scriptum super IV libros Sententiarum[95], che non apportano nulla di originale. Il commento tomista all’Etica Nicomachea è stato già studiato (si veda sezione II, 2.2). Ci occupiamo pertanto della Summa Theologiae. I rimandi interni esistenti nei diversi articoli attinenti al nostro tema mostrano che si deve cominciare dall’articolo 6º della quaestio 96 della Prima Secundae: utrum ei qui subditur legi liceat praeter verba legis agere. Va detto subito che la quaestio 96 ha come titolo De potestate legis humanae, e che pertanto quanto detto nell’articolo 6º si riferisce alla legge umana. Il problema dell’epicheia non viene affrontato esplicitamente in questo articolo, ma da un altro punto di vista esso è utile per capire l’atteggiamento di S. Tommaso nei confronti della legge umana.
Nell’articolo 6º va notato:
a) Il principio generale: «omnis lex ordinatur ad communem hominum salutem, et intantum obtinet vim et rationem legis; secundum vero quod ab hoc deficit, virtutem obligandi non habet». Il bene comune (dello Stato o della Chiesa, cioè dei fedeli) è il principio fondamentale che va tenuto presente in tutta la materia. La legge deve strutturare e regolare la vita in comune affinché in essa gli uomini raggiungano la virtù.
b) Viene ricordato subito il ragionamento presente in Aristotele e in S. Alberto sull’imperfezione delle leggi a causa della loro universalità, che qui va riferito alle leggi umane. S. Tommaso ripete più volte che la legge umana è la legge più imperfetta e quindi la legge più perfettibile. Ciò è dovuto al fatto che la partecipazione della ragione umana alla ragione divina è imperfetta[96].
c) «Unde si emergat casus in quo observatio talis legis sit damnosa communi saluti, non est observanda». Viene proposto l’esempio classico delle porte della città, e si conclude: «et ideo in tali casu essent portae aperiendae, contra verba legis, ut servaretur utilitas communis, quam legislator intendit». Vanno sottolineati due aspetti: il primo, già detto, è che il bene comune è il criterio da tener presente. Il secondo è che l’osservanza letterale della legge va abbandonata quando altrimenti si arriva ad una situazione “damnosa communi saluti”, cioè quando l’osservanza letterale della legge sia lesiva del bene comune.
d) «Sed tamen hoc est considerandum, quod si observatio legis secundum verba non habet subitum periculum, cui oportet statim occurri, non pertinet ad quemlibet ut interpretetur quid sit utile civitati et quid inutile: sed hoc solum pertinet ad principes, qui propter huiusmodi casus habent auctoritatem in legibus dispensandi. Si vero sit subitum periculum, non patiens tantam moram ut ad superiorem recurri possit, ipsa necessitas dispensationem habet annexam: quia necessitas non subditur legi». Questo testo rappresenta certamente una novità. Non c’è dubbio che in esso sono presenti considerazioni provenienti dalla tradizione giuridica e canonica medievale, nonché cautele consigliate dalla sensibilità pastorale. Si nota, d’altra parte, che qui l’Aquinate non vuole prendere in considerazione la problematica propria dell’epicheia, e preferisce restare nella prospettiva giuridica. Ma c’è anche un problema vivamente sentito dalla sensibilità giuridica e politica contemporanea, che acquistò un’espressione celebre nell’opera di Hobbes[97]. Se ciascuno si sente autorizzato a valutare le disposizioni legali alla luce della propria idea del bene comune, si arriva non solo all’arbitrarietà, ma alla dissoluzione dell’intero sistema legale, sia civile sia ecclesiastico. Il giudizio con il quale ogni cittadino potrebbe eventualmente richiamarsi al diritto naturale o ad altri principi superiori minaccerebbe, come la spada di Damocle, ogni legge, e il vivere insieme diventerebbe poco meno che impossibile, e pertanto si avrebbe un danno gravissimo del bene comune. L’ultimo testo riportato significa, a mio avviso, che a S. Tommaso non sfugge questo grave problema.
e) Notiamo inoltre che la prospettiva propria del trattato delle leggi non facilita la distinzione tra epicheia e dispensa. Ma nella risposta alla seconda obiezione la distinzione viene sfiorata: «ille qui sequitur intentionem legislatoris, non interpretatur legem simpliciter; sed in casu in quo manifestum est per evidentiam nocumenti, legislatorem aliud intendisse. Si enim dubium sit, debet vel secundum verba legis agere, vel superiores consulere». L’interpretazione ha luogo quando il testo legale non è chiaro e pone dei dubbi, che devono essere chiariti dall’autorità. Il richiamo all’intenzione del legislatore (epicheia) non è dovuto al fatto che la legge sia oscura, ma al presentarsi di un caso concreto nel quale essa —che in sé è chiara — non può essere osservata senza danno del fine al quale sono ordinate tutte le leggi, vale a dire, il bene comune.
Possiamo ora passare allo studio dei testi dedicati esplicitamente all’epicheia.
3.2 La quaestio 120 della Secunda Secundae
La quaestio 120 della Secunda Secundae, “De Epieikeia”, appartiene al trattato sulla giustizia. È divisa in due articoli: “utrum epieikeia sit virtus” (a. 1) e “utrum epieikeia sit pars iustitia” (a. 2).
Cominciamo dall’articolo primo:
a) All’inizio c’è un riferimento alla I-II, q. 96, a. 6. Ciò sembra indicare che S. Tommaso intende muoversi nell’ambito della giustizia umana, e quindi delle leggi umane. Ciò è confermato dal riferimento ai “legislatores”.
b) Viene riportata la spiegazione classica sull’imperfezione delle leggi umane. Gli atti umani «infinitis modis variari possint», e così «non fuit possibile aliquam regulam legis institui quae in nullo casu deficeret: sed legislatores attendunt ad id quod in pluribus accidit, secundum hoc legem ferentes».
c) Perciò è possibile che osservare la legge in qualche caso «est contra aequalitatem iustitiae, et contra bonum commune, quod lex intendit». Viene considerato l’esempio classico del deposito, e poi aggiunge: «In his ergo et similibus casibus malum esset sequi legem positam: bonum autem est, praetermissis verbis legis, sequi id quod poscit iustitiae ratio et communis utilitas. Et ad hoc ordinatur epieikeia, quae apud nos dicitur aequitas. Unde patet quod epieikeia est virtus».
È da rilevare che l’epicheia viene considerata come una virtù etica, propria dell’uomo in quanto tale. I criteri per i quali essa si regola sono esplicitati: la ratio iustitiae e la communis utilitas. L’epicheia è virtù perché principio di un’opera buona e necessaria: nei casi in cui essa opera «malum esset sequi legem positam». Da notare infine che anche se viene detto che l’epicheia «apud nos dicitur aequitas», S. Tommaso né qui né altrove impiega il termine latino, ma latinizza quello greco.
Nelle risposte alle obiezioni vengono chiariti altri punti. Nell’Ad primum afferma S. Tommaso «quod epieikes non deserit iustum simpliciter, sed iustum quod est lege determinatum. Nec etiam opponitur severitati, quae sequitur veritatem legis in quibus oportet: sequi autem verba legis in quibus non oportet, vitiosum est». L’epicheia non è un generalizzato atteggiamento di benevolenza, cioè non consiste nel “chiudere un occhio”. Essa evita un’osservanza letterale della legge quando osservare letteralmente la legge “vitiosum est”.
Nell’Ad secundum c’è un chiarimento importante. Contro l’obiezione di chi considera che l’epicheia giudica la legge, e pertanto è un vizio, S. Tommaso afferma «quod ille de lege iudicat qui dicit eam non esse bene positam. Qui vero dicit verba legis non esse in hoc casu servanda, non iudicat de lege, sed de aliquo particolari negotio quod occurrit».
Nell’Ad tertium l’epicheia viene distinta dall’interpretazione. «Interpretatio locum habet in dubiis, in quibus non licet, absque determinatione principis, a verbis legis recedere. Sed in manifestis non est opus interpretatione, sed executione».
Passiamo ora all’articolo secondo.
a) L’Aquinate spiega in primo luogo che in riferimento alle virtù si distinguono le parti integrali, soggettive e potenziali. «Pars autem subiectivam est de qua essentialiter praedicatur totum, et est in minus. Quod quidem contingit dupliciter: quandoque enim aliquid praedicatur de pluribus secundum unam rationem, sicut animal de equo et bove; quandoque autem praedicatur secundum prius et posterius, sicut ens praedicatur de substantia et accidente».
b) «Epieikeia ergo est pars iustitiae communiter dictae, tanquam iustitia quaedam existens: ut Philosophus dicit, in V Ethic. Unde patet quod epieikeia est pars subiectiva iustitiae. Et de ea iustitia per prius dicitur quam de legali: nam legalis iustitia dirigitur secundum epieikeiam. Unde epieikeiam est quasi regula superior humanorum actuum». L’epicheia è un tipo di giustizia, la giustizia si predica di essa per prius e della giustizia legale per posterius, perché l’epicheia dirige la giustizia legale. L’ultima frase («quasi regula superior humanorum actuum») è stata sfruttata di recente in senso polemico contro alcuni insegnamenti del Magistero della Chiesa. Su di essa ci soffermeremo tra poco, a proposito del commento del Gaetano. Per ora finiamo la prima lettura di questo articolo.
c) Nell’Ad primum viene notevolmente chiarito il rapporto tra l’epicheia e la giustizia legale. «Epieikeia correspondet proprie iustitiae legali: et quodammodo continetur sub ea, et quodammodo excedit eam. Si enim iustitia legalis dicatur quae obtemperat legi sive quantum ad verba legis sive quantum ad intentionem legislatoris, quae potior est, sic epieikeia est pars potior legalis iustitiae. Si vero iustitia legalis dicatur solum quae obtemperat legi secundum verba legis, sic epieikeia non est pars legalis iustitiae, sed est pars iustitiae communiter dictae, contra iustitiam legalem divisa sicut excedens ipsam».
Conviene tener presente che la connessione tra epicheia e giustizia legale non significa che la virtù dell’epicheia sia principio di atti buoni e eccellenti solo in materia di giustizia. S. Tommaso concepisce la giustizia legale come una virtù generale che riferisce al bene comune gli atti di tutte le altre virtù: «actus omnium virtutum possunt ad iustitiam pertinere secundum quod ordinat hominem ad bonum commune. Et quantum ad hoc iustitia dicitur virtus generalis. Et quia ad legem pertinet ordinare in bonum commune [...] dicitur iustitia legalis; quia scilicet per eam homo concordat legi ordinanti actus omnium virtutum in bonum commune»[98].
Possiamo ora procedere ad un primo chiarimento della formula «epieikeia est quasi superior regula humanorum actuum». A questo scopo è necessario esaminare l’articolo 3º della quaestio 51 della Secunda Secundae. L’epicheia è un abito operativo della volontà, e come tutti gli abiti morali ha la sua regola nella prudenza. Le parti potenziali della prudenza sono la eubulia, la synesis e la gnome. Le ultime due sono le virtù del retto giudizio, mentre la prima è la virtù della retta deliberazione. La synesis è la virtù che permette di giudicare rettamente secondo le regole comunemente utilizzate. Ma talvolta ciò non è possibile, e allora «oportet de huiusmodi iudicare secundum aliqua altiora principia quam sint regulas communes, secundum quas iudicat synesis. Et secundum illa altiora principia exigitur altior virtus iudicativa, quae vocatur gnome, quae importat quandam perspicacitatem iudicii». La gnome è quindi la parte della prudenza che regola la virtù dell’epicheia, determinando l’atto da compiere in casi eccezionali mediante la considerazione non del principio comune (la legge), ma dei principi più alti, che sono il bene comune e la stessa ratio iustitiae. L’epicheia è “superior regula” in quanto per giudicare casi speciali si richiama direttamente ai principi di più alto livello, ma sempre nell’ambito dell’unità della ragione pratica e della ratio boni.
3.3 Il Commento del Cardinale Gaetano
L’autorevolezza del commento del Cardinale Gaetano alla Summa Theologiae è da tutti riconosciuta, perciò è stato pubblicato nell’edizione leonina della Summa tomista[99]. A tale commento farà riferimento spesso Francisco Suárez. È da tener presente tuttavia che tra S. Tommaso e il Gaetano la teologia scolastica ha vissuto la complicata vicenda del nominalismo e, in morale, del volontarismo del XIV secolo. Ciò ha lasciato delle tracce, anche come reazione polemica, nell’opera del Gaetano. Ci serviremo comunque del suo commento alla quaestio 120 della Secunda Secundae per discutere e riassumere la posizione tomista.
Il Gaetano propone una definizione sintetica dell’epicheia. Essa è «directio legis ubi deficit propter universale». Nella spiegazione della definizione sono da rilevare i seguenti elementi:
a) L’epicheia è virtù, e pertanto «consistit actus eius in hoc quod est rectificare et rectum facere opus». In questo senso si parla di “directio”. L’epicheia non è una benevola condiscendenza, ma il principio di un’azione virtuosa, e quindi eccellente.
b) Un elemento di novità sembra esserci nella spiegazione del termine legis. «Dicitur, legis, tam positivae quam naturalis: universalis tamen, et defectivae in aliquibus». Diciamo subito che la novità sta nel fatto che venga posto il problema dell’epicheia in riferimento alla legge morale naturale, cosa che S. Tommaso non fa. Dopo lo studio della tradizione volontarista (si tenga presente che Gaetano nasce nel 1468 e muore nel 1534) si capirà meglio perché il Gaetano tocca la questione della legge naturale. Comunque, è un fatto che a partire dal Gaetano il problema del rapporto tra l’epicheia e la legge naturale diventa una questione scolastica che sarà toccata da tutti, e perciò sembra importante capire bene che cosa intende qui il Gaetano per legge naturale. «Scire oportet quod lex positiva continet duo genera statutorum». Si parte quindi dalla legge positiva, la quale contiene in realtà due ordini di precetti: alcuni che sono meramente positivi e altri che appartengono in realtà allo «ius naturae seu gentium, quae lex positiva magis monstrat quam statuat». Il Gaetano, giustamente, non considera il diritto naturale come una specie di codice a parte, contrapposto al codice civile o penale, ma vede che la legge positiva esprime in molti casi elementi del diritto naturale, come succede per esempio con la legge politica che vieta l’omicidio.
Gli elementi di diritto naturale contenuti nella legge positiva sono di due tipi. «Nam quaedam sic sunt universaliter vera ut in nullo casu deficiant: ut non esse mentiendum, non esse adulterium perpetrandum, et huiusmodi. Et in istis, quia deficere nequeunt, nullum locum habet aequitas. Quaedam vero sunt quae ut in pluribus rectitudinem continent, in aliquo tamen casu a rectitudine declinarent si servarentur. Ut, deposita reddenda esse rectum est ut in pluribus: quia tamen quandoque, si redderetur depositum, esset iniquum, oportuit aliquod aliud directivum inveniri horum operum in quibus lex naturalis depositorum deficit. Et hoc directivum vocatur virtus aequitatis». È chiaro che il Gaetano intende per legge naturale la morale naturale, diversa della legge divino-positiva e, più concretamente, quando afferma che l’epicheia ha per oggetto anche la legge naturale, intende riferirsi alle leggi positive che esprimono, mediante formule linguistiche umane, conseguenze derivate dalle virtù, ma non le loro esigenze essenziali o gli atti che le contraddicono (atti intrinsecamente cattivi). Nel senso in cui parla Gaetano della legge naturale (come morale naturale), è evidente, anzi quasi banale, che l’epicheia si applica nell’ambito della legge naturale. Ma ciò non è vero —come esplicitamente ha chiarito sopra il Gaetano —, se per legge naturale intendiamo gli atti intrinsecamente cattivi, cioè gli atti che in virtù della loro identità essenziale sono contrari alla retta ragione. Siamo, in definitiva, in una linea di ragionamento simile a quella impiegata da S. Tommaso quando si domanda se i precetti del Decalogo sono soggetti a dispensa[100]. Se guardiamo la sostanza, l’affermazione del Gaetano riguardante la legge naturale non si discosta dal pensiero tomista.
c) Viene chiarito in seguito che l’epicheia è diversa dalla dispensa e dall’interpretazione della legge. Nella dispensa «non deficit tunc lex propterea quia erat universalis, sed quia legislator derogavit legi quoad hos privilegiatos. Et simile est si ex quacumque alia causa lex deficiat: nunquam enim spectat directio ad aequitatem nisi deficiat propter universale». L’interpretazione della legge è necessaria quando essa è oscura o ambigua, e spetta all’autorità o al legislatore. Il Gaetano fa un’avvertenza importante, anche per le circostanze attuali, in riferimento all’Ad secundum di S. Tommaso: «Et hoc bene notent sapientes in oculis suis qui etiam quae iuris sunt divini interpretari praesumunt in casu non esse intelligenda, et dicunt se uti epieikeia. Non enim aequitatis est interpretari an in hoc casu servanda sit lex: sed, ubi manifeste lex deficit propter universale, dirigere». L’epicheia permette di compiere un atto virtuoso e eccellente laddove, per la infinità varietà delle circostanze umane, si viene a creare una situazione che manifestamente non rientra nella legge. Ma sarebbe presunzione pensare che l’epicheia permette che i sapientes oculis suis decidano se la legge divina deve essere osservata o meno in questo caso concreto. Anche su questo punto, che sarà ripreso dalla manualistica, il pensiero del Gaetano è inequivoco.
d) Il Gaetano offre un’altra spiegazione importante. «Diligentissime quoque notandum est quod non de quocumque defectu legis propter universale est sermo in hac definitione Aristotelis, sed de defectu obliquitatis. Dupliciter namque contingit deficere legem propter universale: scilicet negative, vel contrarie. Deficit siquidem lex propter universale negative tantum, quando accidit casus in quo cessat ratio legis, ac per hoc videtur quod lex in illo casu non obliget, si tamen servetur lex, nihil mali, nihil inordinati committitur». Vengono proposti diversi esempi, tra cui il rispetto osservato dal Signore della legge della circoncisione, alla quale in realtà non era obbligato. «Contrarie autem deficit lex propter universale, quando evenit casus in quo non solum cessat ratio legis, sed inique ageretur servando legem: ut patet in lege de reddendis depositis, si redderentur poscenti ad impugnandum patriam; et de lege non ascendendi moenia civitatis, si non ascendendo permitteret civitatem capi; et aliis huiusmodi, in quibus servare legem esset a recto deviare». Gli esempi utilizzati mostrano che qui il Gaetano esprime la posizione non solo di S. Tommaso, ma anche quella di S. Alberto e dei commentatori greci di Aristotele, dai quali procedono gli esempi.
Il Gaetano ritiene pertanto che «adimplenda est ergo lex universalis etiam si ratio legis cessat in casu aliquo, dummodo ad obliqua non ducat in casu aliquo». Vale a dire, l’epicheia comanda di andare oltre la lettera della legge quando l’osservanza letterale del precetto dia luogo a un comportamento o a una situazione positivamente ingiusta o cattiva. Questa tesi viene giustificata con tre ragioni. Una di esse è l’autorità di Pietro Lombardo. Un’altra è fondata su Aristotele: l’oggetto della virtù dell’epicheia sono quelle azioni che senza la direzione dell’epicheia non sarebbero rette, perché solo in quei casi la giustizia legale ha bisogno di un’ulteriore virtù direttiva.
C’è un’ultima ragione, che tocca un punto di vitale importanza e attualità, che il Gaetano ha il merito di intravedere con qualche secolo di anticipo, ma che mi sembra egli non riesce a risolvere bene. Sinteticamente: «Secundo probatur, ducendo ad inconveniens. Nam si ad aequitatem spectaret dirigere ea in quibus lex pure negative deficit propter universale, sequeretur et quod simplex fornicatio quandoque esset aequa, et quod multa alia crimina quandoque essent iusta et sancta». Detto questo spiega che ci possono essere dei casi in cui le ragioni per le quali S. Tommaso afferma, nel libro III della Summa contra Gentiles, che la fornicazione è moralmente illecita non sussistano affatto, ma la fornicazione — aggiunge il Gaetano — non può essere mai lecita. Il punto è estremamente delicato. Da una parte, il ragionamento tomista della Summa contra Gentiles non tiene conto degli aspetti personalistici dei peccati contro la castità. Poi il Gaetano non riesce a liberarsi di una concezione funzionalistica (che mira al fine come risultato) della legge morale, che trascura la comprensione di due aspetti importanti: il ruolo del bene comune come principio di ogni legge e, soprattutto, il fatto che la virtù è innanzitutto un principio del ragionamento pratico, ragione per la quale la norma morale è una cosa molto diversa, per esempio, dalle leggi della circolazione stradale. La fornicazione infrange un’esigenza intrinseca e ineliminabile della recta ratio, che ha come principio proprio la virtù della temperanza, mentre passare con il semaforo in rosso è un’esigenza valida solo in circostanze normali. Quando la visibilità a lungo raggio è perfetta e non c’è nessuno (Roma, domenica di agosto alle 3 del pomeriggio), passare col rosso non è contrario alla recta ratio. Queste considerazioni diventano attuali dal momento che per il proporzionalismo tutte le norme morali concrete andrebbero concepite alla stregua delle leggi della circolazione stradale, come si è visto nelle discussioni sulla Veritatis splendor[101].
Del Commento del Gaetano all’articolo 2º della quaestio 120 rileviamo soltanto un punto. Il Gaetano vede che l’affermazione tomista secondo la quale l’epicheia «est quasi superior regula humanorum actuum» può suscitare qualche problema, «quia regula humanorum actuum ut in pluribus non est inferior regula eorundem ut in paucioribus. Aequitas autem est regula in paucioribus: iustitia legalis ut in pluribus. Ergo». Il Gaetano nota che la “regula” sta dalla parte della conoscenza direttiva, e perciò è necessario richiamarsi alla distinzione tra synesis e gnome, da noi già studiata. La gnome mira a principi più alti, che come fini estrinseci sono superiori ai principi intrinseci e immediati della legge. Così la legge che vieta che i pellegrini salgano sulle mura della città ha come fine intrinseco la salvezza della città dalle minacce che provengono dai pellegrini. Nell’ipotesi considerata nell’esempio classico, il principio a cui mira l’epicheia è più alto, perché riguarda la salvezza della città in assoluto, la salvezza da qualsiasi minaccia. A questo principio più alto è ordinato, come a fine estrinseco, il fine immediato della legge che vieta ai pellegrini di salire sulle le mura. Non c’è alcuna contrapposizione: il principio più alto, nei casi normali, impone di rispettare la legge ordinata al fine di livello inferiore. Solo nei casi in cui questo si oppone a quello, l’azione ha bisogno della direzione dell’epicheia.
Più avanti ci soffermeremo sui diversi modi in cui è stato apprezzato e valutato il concetto tomista di epicheia dagli studiosi a noi contemporanei. Per ora possiamo limitarci ad un’osservazione che ci sembra importante. Il pensiero morale di S. Tommaso è basato certamente sull’idea di ordine, ma di un ordine che richiede la presenza attiva dell’uomo come suo vigile custode. Attraverso la virtù dell’epicheia «l’uomo coopera al mantenimento di quest’ordine — per ciò che è ordine umano — nelle sue finalità proprie, quindi nella sua razionalità, quindi nel suo essere rivolto a Dio. La libertà che dona l’epieikeia è quella stessa libertà che si identifica paradossalmente con l’ubbidienza più piena —anche se ‘piena’ non significa necessariamente ‘letterale’ —, la libertà di seguire la “prima regula, qua regulantur omnes rationales voluntates”, cioè la stessa divina voluntas (cfr. Summa Theologiae, II-II, q. 104, a. 1, ad 2), quella che costituisce l’uomo “secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum arbitrium habens et suorum operum potestatem” (Summa Theologiae, I-II, prol.)»[102].
4. La tradizione volontarista
A partire dal secolo XIV si afferma progressivamente nelle grandi università europee l’orientamento volontarista. L’evento è legato a condizioni storiche, culturali, teologiche e religiose di notevole complessità. Non è da sottovalutare l’importanza delle due condanne delle tesi dell’averroismo latino — alcune delle quali erano attribuite a S. Tommaso — irrogate dall’allora Arcivescovo di Parigi Stefano Tempier. Il tema meriterebbe maggiore spazio. Va tenuto presente quanto Gilson scrisse nella sua monumentale opera sul Beato Giovanni Duns Scoto: di cento studiosi che hanno cercato di mettere in ridicolo Scoto, neanche due lo hanno letto e neppure uno lo ha veramente capito[103].
Senza avventurarci in giudizi affrettati, si può dire con certezza che nella tradizione volontarista[104] nasce un nuovo modo di esporre scientificamente la morale cattolica[105]. In esso acquista particolare rilievo la figura del legislatore, che con la sua volontà stabilisce precetti e impone dei fini. In autori come Egidio Romano o Marsilio da Padova l’epicheia appare nuovamente collocata in un contesto politico, come virtù del supremo reggitore, dove «sembra da una parte identificarsi con la clemenza — secondo quella che fin dall’antichità era una delle sue molteplici anime —, ma dall’altra [sembra] trascurare l’attenta fenomenologia della giustizia legale nel suo impatto con il concreto che costituisce indubbiamente l’aspetto più tipico della virtù nel senso aristotelico-tomistico»[106]. Nel Beato Giovanni Duns Scoto l’epicheia sembra essere riassorbita nella categoria più ampia della dispensa, cioè della cessazione della volontà di obbligare[107].
Si considera comunemente che il legislatore legisla secondo la volontà di Dio. Ma si concede allo stesso tempo che su alcune materie il legislatore umano gode di piena discrezionalità. In queste materie l’epicheia assume un volto nuovo, come titolo secondo il quale il suddito rivendica contro il legislatore il suo diritto di non ottemperare alle ingiunzioni legali. Dalla superiustitia di S. Alberto si passa ad una concezione dura dell’epicheia. Essa non è più la possibilità che ha l’uomo di far appello al reale (alla ratio iustitiae e alla communis utilitas), bensì «la bandiera della liberazione del soggetto da precetti che gli vengono ingiustificatamente imposti»[108]. Emerge allora un grande problema, che S. Tommaso non si era posto esplicitamente: quello di determinare quali leggi siano assoggettabili all’epicheia. Ciò permette di capire perché invece il problema viene posto dal Gaetano. Sembra che l’epicheia sia uno strumento che vada automaticamente rapportato alle singole leggi per verificarne l’immutabilità. L’epicheia viene vista allora come una mitigatio juris, come una riappropriazione da parte del suddito di un potere primigeniamente a lui spettante e mal gestito dal capo della comunità.
Questo non implica un atteggiamento negativo nei confronti della legge. Viene piuttosto concesso un valore assoluto alla legge, ma solo nei limiti in cui essa è posta dal legislatore. Ugualmente viene concesso un grande valore alla dispensa, senza soffermarsi più di tanto nell’individuare la ratio che la rende necessaria o conveniente. In questo modo l’epicheia, nel senso aristotelico e tomista, tende a scomparire, perché viene sostituita dall’interpretazione della legge e dalla dispensa espressa o tacita. «Quando la giustizia non consiste più nella conformità ad un ordine ontologico, non ha più senso parlare di emergenza del caso concreto, nel caso in cui la norma non realizzi più quell’ordine, e di uso dell’epieikeia. L’unica giustizia è l’adeguazione alla volontà del legislatore, espressa nella norma o, in determinati casi, nella dispensa dall’osservanza di una norma»[109]. Questo giudizio di D’Agostino potrebbe essere arricchito con alcune sfumature, ma sembra indubbio che nel contesto volontarista il potere di dispensare acquista una discrezionalità e un’ampiezza che non sarebbe pensabile nel quadro del tomismo.
L’epicheia acquista una valenza fortemente polemica nel pensiero di Guglielmo di Ockham, avversario del potere pontificio e sostenitore della causa imperiale. Ockham afferma la liceità dell’intervento dell’autorità politica nel caso di eresia papale. Si pone l’obiezione che i sacri canoni vietano che un chierico sia sottoposto all’autorità civile. Questi canoni —risponde Ockham — «exponendi sunt per epikeyam, quae est virtus et aequitas qua discernitur in quo casu leges sunt servandae et in quo non»[110]. Secondo Ockham e Marsilio da Padova, in virtù dell’epicheia Ludovico il Bavaro avrebbe legittimamente annullato il suo matrimonio con Margherita Maultasch prima che la corte pontificia si fosse pronunciata, giacché il non annullamento del matrimonio sarebbe stato nocivo per il bene comune dell’Impero[111]. Per Ockham l’epicheia assolve una funzione ben precisa: permettere di infrangere la lettera dei canoni[112]. Manca ogni accenno di confronto comparativo tra i due beni, quello che la legge persegue e quello che emerge dal caso concreto. L’unico bene è quest’ultimo. Manca ugualmente la ricerca dell’intenzione del legislatore. Il bene che l’epicheia dovrebbe garantire resta sempre indeterminato.
Per la vis polemica di Ockham, funzione principale dell’epicheia è liberare il soggetto dall’osservanza della legge. E il motivo fondamentale è che per Ockham «compito dell’equità non è più la ricerca della giustizia, la volontà da parte del soggetto di farsi giusto (il che giustificherebbe la qualifica dell’equità come virtù), ma il discernimento dei casi in cui “leges sunt servandae” o meno. Non più dunque, come per S. Tommaso, come applicare la legge, ma se applicarla o no. L’equità non più dunque come valore morale, ma al più come valore politico»[113]. Ciò diventa palese nel Defensor Pacis di Marsilio da Padova e nei dibattiti sul conciliarismo, in cui intervengono, tra gli altri, Conrad von Gelnhausen, Enrico di Assia, Pierre d’Ailly, Gerson e Nicola Cusano, autori sui quali non possiamo soffermarci. Bastino le precedenti considerazioni per esemplificare quello che potremmo denominare l’uso polemico del concetto di epicheia. Bisognerà aspettare la seconda scolastica per ritornare al concetto classico di epicheia. La Summa di Antonino da Firenze è probabilmente la prima reazione in questo senso.
5. Francisco Suárez
Francisco Suárez (1548-1617) è uno dei più importanti rappresentanti della seconda scolastica. Nella sua monumentale opera De Legibus ac Deo Legislatore (1612) dedica un grande spazio all’epicheia. Suárez si inserisce nella grande tradizione scolastica con un pensiero morale che possiede tuttavia tratti originali che conviene spiegare brevemente[114].
Per S. Tommaso la legge è un’ordinatio rationis ad bonum commune. La legge è fondamentalmente opera della ragione, e in virtù della sua razionalità mirante al bene comune obbliga le coscienze. Il bene comune è sempre l’oggetto dell’intenzione del legislatore. Suárez concede un ruolo maggiore alla volontà e alla persona del legislatore concreto. Per Suárez è importante agire ad mentem legislatoris, il quale intende vincolare la coscienza del suddito in un certo modo e fino a un certo punto. Accanto all’idea di obbligazione, Suárez manifesta un grande interesse nel salvaguardare la libertà del soggetto. La preoccupazione di Suárez non è tanto quella di sapere quando la legge deve essere corretta per raggiungere la vera giustizia, ma quella di sapere quando il suddito può considerarsi legittimamente scusato dall’osservanza della legge[115]. È a questo scopo che serve conoscere esattamente la mens legislatoris[116].
Oltre a queste caratteristiche, messe in rilievo da Hamel, è da notare un’altra cosa. Per Suárez il giudizio della recta ratio è indicativo di un ordine naturale che Dio impone come legge, e quindi la recta ratio manifesta o permette di conoscere la legge naturale e la legge eterna. Per S. Tommaso il giudizio della recta ratio è esso stesso una vera e propria legge morale, la legge naturale, perché tale giudizio costituisce la partecipazione dell’uomo alla legge eterna. Per S. Tommaso la recta ratio è una partecipazione all’Intelligenza divina; per Suárez, la recta ratio permette di conoscere il decreto della volontà di Dio. Come conseguenza, per S. Tommaso la recta ratio possiede una vera competenza morale, che l’enciclica Veritatis Splendor chiama “teonomia partecipata”[117]; per Suárez la ragione stabilisce, procedendo speculativamente, la conformità di certi comportamenti con la natura umana, e tale conoscenza è legge in quanto permette di conoscere la volontà di Dio. S. Tommaso e Suárez hanno un’idea diversa della ragione morale. Mi sembra che per Suárez la ragione morale non è quello che oggi chiamiamo in senso rigoroso ragione pratica.
5.1 Il libro II del De Legibus
Il capitolo 16 del libro II del De Legibus è dedicato al seguente problema: utrum circa legem naturalem habeat locum epiikia vel interpretatio sive a Deo sive ab homine facta[118]. Anticipiamo che Suárez darà una risposta negativa. La legge naturale non ammette correzione attraverso l’epicheia. Ma esaminiamo la sua risposta.
Ci sono tre opinioni. Secondo la prima, la legge naturale ammette l’epicheia, ma essa spetta solo a Dio. La seconda opinione afferma che anche il Papa o qualche altra alta autorità potrebbe correggere la legge naturale attraverso l’epicheia. Secondo la terza opinione la legge morale naturale non ammette epicheia. Suárez ritiene che solo la terza opinione è vera.
Nell’esposizione di questa terza opinione, Suárez comincia distinguendo l’epicheia dall’interpretazione della legge: «Multo enim latius patet interpretatio legis quam epiikia. Comparantur enim tanquam superius et inferius. Omnis enim epiikia est legis interpretatio; non vero e converso omnis interpretatio legis est epiikia»[119]. La distinzione viene spiegata seguendo il commento del Gaetano. L’interpretazione intende spiegare una legge che è oscura nei sui termini. L’epicheia invece corregge la legge «in casu in quo esset error practicus illam servare et contra iustitiam et aequitatem naturalem»[120]. La correzione mediante l’epicheia è necessaria per non incorrere in errore o in palese ingiustizia.
Viene riproposta in seguito la distinzione del Gaetano, già studiata da noi (si veda III, 3.3): «sic ergo lex naturalis spectari potest vel secundum se, prout recta ratione concipitur vel dictatur; vel prout exprimitur aliquibus certis verbis per aliquam legem scriptam»[121]. In entrambi i casi la legge naturale ha bisogno, per gli uomini, di chiarimenti e interpretazioni che spieghino il vero senso: «ad intelligendum verum sensum naturalis praecepti, necesse est inquirere conditiones et circumstantias cum quibus actus ille secundum se malus est vel bonus; et haec vocatur interpretatio praecepti naturalis quoad verum sensum eius»[122]. Suárez adduce l’esempio dell’omicidio. È necessario chiarire, per esempio, che la legittima difesa non rientra nella proibizione naturale dell’omicidio.
Invece nessun precetto naturale considerato in se stesso ammette epicheia propriamente detta. Ciò viene dimostrato prima attraverso certi esempi, poi con argomentazioni razionali e infine in modo induttivo. Per quanto riguarda gli esempi, basti considerare il primo:
«Unum est de lege reddendi depositum, quo utitur Caietanus; quia in illo interpretamur non obligare in casu in quo esset contra iustitiam vel charitatem depositum reddere. Haec autem interpretatio non est epiikia in ipso praecepto naturali secundum se spectato. Nam illud praeceptum, ut sic, est in recta ratione; et recta ratio non absolute dictat depositum esse reddendum, sed subintellectis conditionibus quas ratio iustitiae et charitatis requirit; et ita illa interpretatio quae tunc fit, non est propter universale (ut Caietanus loquitur), sed est declaratio verae universalitatis ipsius legis, prout in se lata est, id est, prout in recta ratione continetur. Non est ergo epiikia»[123].
Le due argomentazioni razionali presentate da Suárez a sostegno della sua tesi sono imperniate sul concetto di recta ratio: «lex naturalis emendari non potest, cum posita sit in recta ratione, quae a vero deficere non potest. Nam si deficit, iam non est recta ratio»[124]. Detto questo, Suárez aggiunge:
a) «Iustum autem naturale, cum oriatur ex intrinseca (ut sic dicam) conformitate et consonantia extremorum, deficere non potest nisi aliquod ex extremis mutetur; et tunc iam mutatur materia legis et non est idem medium virtutis, et consequenter neque idem iustum; et ita licet cesset obligatio legis, non est propter epiikiam sed propter mutationem materiae»
b) «Dictamen rectae rationis secundum se spectatum et ut practice verum non fertur in universale, prout potest deficere, sed prout his circumstantiis affectum, cum quibus nunquam deficit»[125].
Per fondare induttivamente che la legge morale naturale non ammette la correzione dell’epicheia, Suárez ricorda la distinzione tra precetti positivi e precetti negativi. I precetti positivi sono di natura tale «ut semper obligent, non tamen pro semper». Siccome questi precetti obbligano semper, non sono oggetto di interpretazione né cambiamento alcuno. Ma siccome non obbligano pro semper, il momento in cui obbligano può essere determinato da una legge positiva, e allora possono essere oggetto di interpretazione, di epicheia e di dispensa[126]; oppure il momento in cui obbligano è determinato dalla ratio naturalis, e in tale caso «nulla est epiikia, quia nulla est exceptio a lege, nec emendatio praecepti, sed simplex intelligentia illius»[127]. I precetti negativi, invece, sono di natura tale «ut semper et pro semper obligent, vitando mala quia mala sunt»[128]. Questi precetti (quelli cioè che riguardano gli atti intrinsecamente cattivi) non possono essere corretti dall’epicheia in alcun modo, «quia impossibile est id quod est per se et intrinsece malum, fieri bonum aut non malum, manente eodem obiecto et circumstantiis; et ideo dicimus non posse hoc fieri per dispensationem. Ergo multo minus fieri potest per epiikiam»[129]. Quello che può capitare è che cambi l’oggetto oppure le circostanze intrinseche, e allora si tratta di un atto morale diverso: «Quod si mutatio fiat in obiecto vel circumstantiis intrinsecis, et ratione eius mutationis actus desinat esse malus, iam illa non est epiikia, quia non versatur circa materiam sub tali lege naturali comprehensam, sed est cognitio seu interpretatio materiae legis et finium eius»[130]. Vengono proposti l’esempio del furto in caso di estrema necessità e quello del deposito. Segue la inequivocabile conclusione in senso negativo: «Ita ergo in praeceptis negativis naturalibus intelligi non potest propria epiikia»[131].
Suárez considera alcune possibili obiezioni. Riportiamo soltanto gli esempi riguardanti il matrimonio. Sembrerebbe che certi precetti naturali possono essere corretti mediante l’epicheia. «Huiusmodi est praeceptum prohibens matrimonium cum sorore, quod in casu extremae necessitatis non obligat propter conservationem speciei. Idem est de praecepto non contrahendi cum secunda, vivente prima, maxime si primum matrimonium fuit consummatum. Nam in eadem necessitate generis humani, si prima esset sterilis, liceret accipere secundam; et in praeceptis pertinentibus ad impedimenta quae iure naturae irritant matrimonium, invenientur multa similia»[132]. È chiaro che Suárez considera ipotesi eccezionali su un piano puramente speculativo, e sempre in funzione del bene del genere umano. Oggi noi potremmo formulare, per esempio, le seguenti situazioni: dopo una guerra nucleare, restano sul pianeta terra un solo uomo e sua sorella, oppure un uomo, sua moglie sterile, e un’altra donna fertile. La risposta di Suárez a queste obiezioni è la seguente: «Nunc autem, supponendo illa esse vere praecepta naturalia, respondetur per illa non prohiberi simpliciter matrimonium, v. g. inter fratres vel cum secunda, sed prohiberi tali matrimonium quatenus noxium humanae naturae, et ita contrarium naturali honestati secundum rectam rationem. In casu vero illius necessitatis cessat haec ratio et incipit esse matrimonium maxime commodum naturae et suinde honestum, quia propter solam conservationem necessariam suscipitur; qui finis non est extrinsecus, sed intrinsecus tali actui. Atque hoc modo in illa occasione mutatur materia praecepto negativi»[133]. In sintesi, in questi esempi cambia completamente il rapporto che i comportamenti esaminati hanno con un fine intrinseco del matrimonio, e pertanto cambia l’oggetto morale dell’atto.
Possiamo dire, in definitiva, che Suárez ribadisce in ogni caso che l’obbligo delle leggi positive può cessare per il cambiamento delle sole circostanze estrinseche; mentre «in lege naturali fieri non potest ut, stante integra materia cum eisdem circumstantiis intrinsecis, propter solas extrinsecas occasiones interpretemur legem prohibentem non obbligare, quia impossibile est a tali materia suis intrinsecis conditionibus affecta separari malitiam et consequenter nec naturalem prohibitionem, etiamsi extrinsecus finis vel circumstantiae varietur»[134]. Si può affermare con assoluta e universale certezza che un atto vietato da un precetto naturale negativo, «stante eadem materia», mai potrà diventare moralmente lecito in virtù dell’epicheia[135].
Suárez si occupa infine dei precetti naturali in quanto formulati o determinati da una legge umana. Tali formulazioni positive possono essere corrette dall’epicheia, nello stesso senso in cui era stato già spiegato dal Gaetano. «Nam leges humanas saepe hoc non attendunt, sed simpliciter praecipiunt actum, v. g. reddere depositum vel solvere promissum, in quibus legibus ut sic propositis potest habere locum epiikia. Dico autem hoc intelligi in ordine ad intentionem legislatoris humani, quia saepe contingere potest ut legislator humanus nihil de tali exceptione cogitaverit, nec illam expresse intenderit, sed potius absolute et sine limitatione legem tulerit sub verbis de se comprehendentibus casum illum, et nihilominus interpretamur non comprehendisse illum. Quae interpretatio respectu voluntatis legislatoris humani est epiikia, quia est quasi emendatio eius»[136].
5.2 Il libro V del De Legibus
Suárez dedica ampio spazio allo studio dei problemi riguardanti l’epicheia nelle leggi umane. Consideriamo in primo luogo il libro V del De Legibus: “De varietate legum humanarum”[137].
Nel capitolo 23 del libro V Suárez si pone la domanda «utrum in lege irritante actum ipso facto et ante omnem sententiam habeat locum epiikia»[138]. La risposta è negativa. Riportiamo alcuni dei passi più significativi.
«Actum irritum per legem simpliciter et absolute, non posse unquam valide fieri contra verba legis, per solam epiikiam [...] Quando lex inducit substantialem formam, quia in nullo casu potest res subsistere sine tali forma: ergo in nullo etiam casu potest irritatio cessare, quae oritur ex defectu talis formae [...] [Quando la legge irritante rende una persona inabile], inhabilitas per legem inducta non potest restitui per modum epiikiae, quia epiikia ad summum potest conducere ad excusationem obligationis: ad dandam autem potestatem quam homo non habet, aut restituendam ablatam, non sufficit, quia ad hoc requiritur positivus actus qui tunc non fit, nec a superiore, nec ab aliquo qui vim habeat restituendi potestatem ablatam vel auferendi inhabilitatem inductam»[139].
Per quanto riguarda il matrimonio, viene proposta un’osservazione che mi sembra pertinente per ciò che oggi, riguardo al problema dei fedeli divorziati risposati, viene chiamato il caso “di buona fede”:
«Et hac ratione dicunt communiter doctores personam inhabilem ad matrimonium non posse propter quodcumque periculum vel metum mortis contrahere matrimonium et consummare, quia nunquam erit illud matrimonium validum propter inhabilitatem, quae non restituitur per metum vel similem occasionem»[140].
5.3 Il libro VI del De Legibus
Il libro VI del De Legibus, “De interpretatione, cessatione et mutatione legis humanae”, contiene un particolareggiato studio sull’uso dell’epicheia nelle leggi umane[141]. Suárez sembra tener presente soprattutto il diritto canonico.
Nel capitolo 6 Suárez si domanda: «utrum interdum cesset obligatio legis in particulari contra verba legis, etiamsi per principem non tollatur». Nella risposta egli distingue tra mutatio legis ab intrinseco e la mutatio legis ab extrinseco, vale a dire per un atto del superiore. Entrambe possono essere parziali (per un atto singolare, per una persona, per un periodo di tempo) o totali (ablatio totius legis). La cessatio legis universalis ab intrinseco in particulari eventu, spiega Suárez, è il caso studiato da S. Tommaso nella Summa Theologiae I-II, q. 96, a. 6 e nella II-II, q. 120 (si vedano sopra le sezioni III, 3.1 e 3.2). Siamo quindi all’epicheia, «emendatio legis propter universale»[142], che — come sappiamo — è diversa dall’interpretazione della legge oscura. Suárez espone il pensiero di S. Tommaso, di Aristotele e di alcuni canonisti sull’epicheia. Non c’è nulla di sostanzialmente nuovo. Caso mai c’è da osservare che nel libro VI Suárez si muove in un contesto giuridico, concedendo notevole attenzione alla tradizione canonistica. Malgrado le sue frequenti dichiarazioni in contrario, l’epicheia viene assimilata troppo all’interpretazione della legge, diventando un tipo di interpretazione e di mutazione della legge, il che non mi sembra sia conforme al pensiero di S. Tommaso e di Aristotele.
Il capitolo 7 del libro VI, “Quando habeat locum excusatio legis per epiikiam, seu aequitatem”, contiene alcuni elementi nuovi. Notiamo innanzitutto che l’epicheia è presentata come «excusatio ab obligatione legis». S. Tommaso afferma, invece, che «per epiichiam aliquis excellentiori modo obedit, dum observat intentionem legislatoris ubi dissonant verba legis»[143]. La divergenza sta soprattutto nell’impostazione, ed è senz’altro significativa.
Ma gli elementi nuovi stanno nel modo in cui Suárez risolve il problema, già posto dal Gaetano (si veda sezione III, 3.3), se affinché la legge possa essere corretta dall’epicheia è necessario che la legge deficiat contrarie o basta che essa deficiat negative solum[144]. Suárez ritiene che non basta che la legge deficiat negative, ma è necessario che deficiat aliquo modo contrarie, e in questo si dichiara d’accordo con S. Tommaso, Gaetano, Soto, Ledesma, Navarro, Covarrubias e Medina. Due cose sono da notare: in primo luogo, perché non basta che la legge deficiat negative; in secondo luogo, che cosa significa per Suárez deficere “aliquo modo” contrarie, perché nella clausola “aliquo modo” sono contenuti gli elementi nuovi riguardo a S. Tommaso e Gaetano.
Sul primo punto, Suárez nota che se fosse sufficiente che la legge deficiat negative, si creerebbero delle situazioni assurde e nocive. Mi sembra che il problema di fondo, come ho detto a proposito del Gaetano, sta nel necessario riferimento di ogni legge umana al bene comune, anche se in Suárez tale riferimento passa attraverso la mediazione rappresentata dall’intenzione del legislatore. «Licet ratio legis in particulari cesset negative, semper manet aliqua universalior ratio ob quam expedit etiam tunc servari legem, tum quia esset valde contrarium bono communi, si propter illam solam causam possent leges non servari, tum etiam quia per se est honesta ratio servandi legem uniformitas partium cum toto, ubi sine incommodo servari potest»[145]. E più avanti: «nam, licet legislator advertat et praevideat rationem defecturam in aliquibus vel distincte vel tantum confuse cogitatis, nihilominus potest juste velle ut indistincte obliget omnes dum contrarium impedimentum aequitate repugnans non obstiterit: ergo ita est interpretanda voluntas legislatoris: ergo ex vi illius obligabit lex»[146]. E infine: «quia jam declaratum est quo modo haec obligatio in casu pertineat ad bonum commune, quia, licet tunc subditus non participet illam utilitatem intentam per legem, participat generalem utilitatem quae est in observanda lege et in uniformitate cum suo corpore, et ex hoc capite lex illa est justa, et fundatur in ratione altiori»[147].
Passiamo al secondo punto: «quid requiritur ut ratio vel finis legis cesset contrarie»[148]. Come sappiamo, il Gaetano ritiene che «solum habere locum epiikiam, quando lex ita deficit ut servarem illam sit iniquum»[149]. Suárez considera che tale opinione è «nimis rigida et limitata»[150]. E aggiunge che, oltre all’ipotesi ammessa dal Gaetano, ci sono altre due in cui è lecito correggere la legge umana con l’epicheia:
1) La prima si verifica quando osservare letteralmente la legge umana, pur non essendo immorale, è «nimis grave aut difficile». La legge umana non obbliga «cum periculo vitae, vel alio magno incommodo: nam inde constat propter vitandum magnum gravamen licitum esse non servare legem»[151]. Viene proposto, tra gli altri, l’esempio della liceità di non fare una confessione integra quando ciò non è possibile «sine gravi periculo infamiae». Si deve notare, aggiunge Suárez, che «non solum esse alienum a prudenti legislatore iniqua praecipere, sed etiam inhumana et graviora quam humana conditio patiatur vel quam ratio communi boni postulet, ut ex dictis supra in communi de lege manifestum est. Ergo non solum peccaret lex praecipiendo quod non debet, id est, iniquum, sed etiam praecipiendo quando vel quomodo non debet, id est, obligando cum majori rigore quam par sit. Utrumque ergo peccatum legis emendat epiikia»[152].
2) La seconda ipotesi si verifica «in casu in quo non deesset potestas in legislatore ad obligandum, sed ex circumstantiis judicatur non fuisse hanc mentem eius. Quia non semper Praelatus vult obligare cum toto rigore et in omni eventu in quo posset obligare; ut, verbi gratia, non solum censetur quis excusari a praecepto jejunii propter aegritudinem gravem in qua non posset superior obligare, sed etiam propter minorem debilitatem, qua non obstante potuisset Ecclesia obligare, sed nihilominus creditur ex benignitate noluisse, quae intentio legislatoris colligi potest ex aliis circumstantiis temporis, loci et personarum, et ex ordinario modo praecipiendi cum illa moderatione subintellecta, licet non exprimatur»[153].
Alla fine del capitolo 7 Suárez afferma che «non solum posse cessare obligationem legis quando in particulari eventu esset contra bonum commune servare legem, sed etiamsi sit tantum contra bonum particularis personae, dummodo sit nocumentum grave et nulla alia ratio communis boni obliget ad illud inferendum vel permittendum; nam tunc justitia vel charitas jubet evitare tale nocumentum proximi, cui non potest lex humana rationabiliter opponi»[154]. Si noti bene che qui, come anche sopra, Suárez precisa che ciò è posssibile solo se «nulla alia ratio communis boni obliget».
Nel capitolo 8 del libro VI Suárez elabora una particolareggiata casistica sull’uso concreto dell’epicheia, discutendo, per esempio, se basta un giudizio probabile per applicare con epicheia una legge senza dover fare un ricorso all’autorità. Tracce di questa casistica si troveranno in S. Alfonso e nella manualistica. Non sembra necessario soffermarvisi.
Mettendo a confronto la posizione di Suárez con quella di S. Tommaso, ci sembra di poter dire che Suárez è meno rigido di S. Tommaso per quanto riguarda l’uso dell’epicheia, e ciò è dovuto in buona parte alla diversa impostazione di fondo. S. Tommaso si muove in una prospettiva morale, e vede la legge come un principio positivo ordinato alla virtù e quindi alla perfezione umana. Suárez si muove in ambito canonico e politico, in un periodo storico che vede nascere l’assolutismo politico, ragione per cui egli intende difendere la libertà del singolo nei confronti di una legislazione civile o ecclesiastica troppo invadente. Vedremo più avanti che non tutti gli studiosi contemporanei sono d’accordo su questa valutazione.
5.4 Il libro X del De Legibus
Il libro X del De Legibus è dedicato alla lex nova. Nel capitolo 6 Suárez si domanda «an possit aliquis in lege nova dispensare»[155]. Il problema è in pratica se il Romano Pontefice può dispensare «in jure divino evangelico»[156]. Suárez fa sua la sentenza comune dei teologi «absolute negans legem Christi divinam esse dispensabilem, etiam per Pontificem»[157]. Pensare il contrario sarebbe mettere in pericolo l’unità e l’identità della Chiesa. Così spiega Suárez:
«Nam convenientissimum fuit esse in Ecclesia Christi aliqua praecepta ita immutabilia, ut per hominem dispensari non possint; ergo talia censenda sunt illa quae ad legem a Christo institutam et latam pertinent. Antecedens patet, quia haec Ecclesia semper debet esset una, et ideo observare etiam debet uniformitatem, non solum in fide, sed etiam in religione exteriori, et in substantialibus ritibus suis, quia (juxta sententiam Augustini supra relatam) non potest aliter humana congregatio in unum corpus religionis conjungi; sed haec stabilitas et unitas Ecclesiae sine praeceptis dicto modo immutabilibus convenienter conservari non posset: ergo. Probatur minor: nam si per dispensationes possent fundamenta Ecclesiae labefactari, aut variationem aliquam recipere in diversis partibus eius, discursu temporum tanta facta esset mutatio, ut vix Ecclesiae unitas agnosceretur: ergo oportet haec praecepta quasi fundamentalia, ut sic dicam, esse prorsus invariabilia et indispensabilia»[158].
Queste parole di Suárez offrono importanti motivi di riflessione. Nel notare che se l’autorità ecclesiastica avesse un potere universale di dispensa tra qualche secolo la Chiesa potrebbe perdere completamente la sua identità, diventando in pratica irriconoscibile, Suárez si oppone ad una concezione volontaristica dell’autorità ecclesiastica, non assente nei dibattiti attuali, secondo la quale essa potrebbe fare tutto e il contrario di tutto, e se non lo fa è perché non vuole farlo. Suárez fa presente, in definitiva, che prima di pensare se è opportuno concedere questa o quella dispensa, oppure introdurre questo o quel cambiamento, è necessario chiedersi se tale cosa può essere fatta. Notiamo, infine, che Suárez precisa che «praecepta legis gratiae positivam nullam dispensationem per modum epiikiae admittere»[159], aggiungendo importanti chiarimenti per quanto riguarda i sacramenti[160].
Con l’imponente sintesi di Suárez possiamo considerare quasi conclusa l’elaborazione dottrinale che costituirà la base dello studio casistico dell’epicheia per alcuni secoli, in pratica fino ai primi decenni del nostro secolo, come vedremo nella seconda parte di questo studio.
* Pubblicato su «Acta Philosophica» VI (1997), pp. 197-236.
[1] Cfr. per esempio: K. Kuypers, Recht und Billigkeit bei Aristoteles, «Mnemosyne. Bibliotheca Classica Batava», III serie, 5 (1937), pp. 289-301; R. Egenter, Über die Bedeutung der Epikie im sittlichen Leben, «Philosophisches Jahrbuch», 53 (1940), pp. 115-127; Id., voce Epikie, in LThK, III, pp. 934 ss.; L.J. Riley, Nature and Use of Epikeia in Moral Theology, Washington 1948; J. Giers, Epikie und Sittlichkeit. Gestalt und Gestalwandel einer Tugend, in R. Hauser-F. Scholz, R., Der Mensch unter Gottes Anruf und Ordnung (Festgabe Müncker), Düsseldorf 1958, pp. 51-67; E. Hamel, La vertu de l’épikie, «Sciences Ecclésiastiques», 13 (1961), pp. 35-56; Id., Fontes graeci doctrinae de epikeia, «Periodica de re morali, canonica, liturgica», 53 (1964), pp. 169-185; Id., L’usage de l’épikie, «Studia Moralia», 3 (1965), pp. 48-81; F. D’Agostino, Epieikeia. Il tema dell’equità nell’antichità greca, Giuffrè, Milano 1973; Id., La tradizione dell’epieikeia nel medioevo latino. Un contributo alla storia dell’idea di equità, Giuffrè, Milano 1976; J. Fuchs, Epikeia circa legem moralem naturalem?, «Periodica de re morali, canonica, liturgica», 69 (1980), pp. 251-270; Id., Eccezioni - Epikeia e norme morali di legge naturale, nel suo volume Etica Cristiana in una società secolarizzata, Piemme, Roma 1984, pp. 139-155; G. Virt, Epikie - verantwortlichen Umgang mit Normen. Eine historisch-systematische Untersuchung zu Aristoteles, Thomas von Aquin und Franz Suarez, Grünewald, Mainz 1983; Id., voce Epiqueya, in H. Rotter-G. Virt, Nuevo diccionario de moral cristiana, Herder, Barcelona 1993, pp. 177-179.
[2] Cfr. K. Hilpert, Glanz der Licht und Schatten, «Herder Correspondenz», 47 (1993), pp. 623-630; G. Virt, Epikie und sittliche Selbstbestimmung, in D. Mieth (hrsg.), Moraltheologie im Abseits? Antwort auf die Enzyklika “Veritatis splendor”, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1994, pp. 203-220. Hilpert e Virt lamentano il silenzio dell’enciclica Veritatis splendor sull’epicheia, la cui considerazione consentirebbe, a loro avviso, di dare alla morale un’impostazione più realistica.
[3] D’ora in avanti sarà citata Lettera CDF 14/9/94.
[4] Cfr. G. Virt, Die vergessene Tugend der Epikie, in Th. Schneider, (hrsg.), Geschieden, Wiederverheiratet. Abgewiesen? Antworten der Theologie, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1995, pp. 267-283. Bisogna aggiungere, per completezza, che già prima della pubblicazione della Lettera CDF 14/9/94, alcuni autori avevano avanzato la stessa ipotesi. Cfr. per esempio: B. Häring, Pastorale dei divorziati. Una strada senza uscita?, Bologna 1990, p. 78; K. Demmer, Moraltheologie und Kirchenrecht. Eine neue Allianz?, in J. Römelt-B. Hidber, In Christus zum Leben befreit. Für Bernhard Häring, Wien 1992, pp. 352-366 (K. Demmer prospetta piuttosto una più accurata revisione della teoria della dispensa).
[5] Non ci occuperemo propriamente dell’aequitas canonica. Su di essa sono fornite utili indicazioni da P. Fedele, voce Equità canonica, in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano 1966, pp. 147-159, e da m.f. Pompedda, L’equità nell’ordinamento canonico, in S. Gherro, (cur.), Studi sul Primo Libro del Codex Iuris Canonici, Cedam, Padova 1993, pp. 3-33. Si tenga conto però che buona parte della riflessione sull’epicheia a partire della seconda scolastica (Suárez) concerne anche l’equità canonica.
[6] Cfr. su questo punto il completo studio di F. D’Agostino, Epieikeia..., cit. Si veda anche: E. Hamel, Fontes graeci..., cit., e M. Radin, Early Greek Concepts of Equity, in “Mnemosyne Pappoulia”, Athenai 1934, pp. 213-220.
[7] Cfr. F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 52.
[8] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1936, vol. III, p. 371.
[9] Platone, Politico, 295 a. Se non si avverte diversamente, riportiamo la traduzione italiana pubblicata nel volume Opere, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 19923.
[10] Cfr. Politico, 297 e.
[11] Politico, 300 b; ed. cit., p. 357.
[12] Platone, Leggi, VI, 757 c; ed. cit., p. 1567.
[13] Leggi, VI, 757 b; ed. cit., p. 1567.
[14] Leggi, VI, 757 d-e; ed. cit., p. 1567.
[15] Cfr. R. Egenter, Über die Bedeutung der Epikie im sittlichen Leben, cit., p. 117; M. Müller, Der hl. Albertus Magnus und die Lehre von der Epikie, «Divus Thomas», 12 (1934), p. 167.
[16] E. Hamel, Fontes graeci..., cit., p. 177.
[17] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 61.
[18] Cfr. Leggi, 656- 657 b; 797 a-799 b.
[19] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., pp. 62-63.
[20] Per un breve chiarimento delle caratteristiche di questa figura di etica, anche nella sua contrapposizione con l’etica “della terza persona”, mi permetto di rimandare al mio manuale Etica, Le Monnier, Firenze 1992, nn. 142-149.
[21] Per un’aggiornata visione di insieme, cfr. G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale - 1, las Roma 1996; Id., Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di S. Tommaso d’Aquino, las, Roma 1989; Id., Una filosofia morale per l’educazione alla vita buona, «Salesianum», 53 (1991), pp. 273-314; Id., Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, 2ª ed. ampliata, las, Roma 1995; M. Rhonheimer, Natur als Grundlage der Moral. Eine Auseinandersetzung mit autonome und teleologischer Ethik, Tyrolia, Innsbruck-Wien 1987; Id., Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis. Handlungstheorie bei Thomas von Aquin in ihrer Entstehung aus dem Problemkontext der aristotelischen Ethik, Akademie Verlag, Berlin 1994; id., La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Armando, Roma 1994; A. Macintyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988; Id., Giustizia e razionalità, Anabasi, Milano 1995; Id., Enciclopedia, Genealogia e Tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale, Massimo, Milano 1993; A. Rodríguez Luño, La scelta etica. Il rapporto tra libertà e virtù, Ares, Milano 1988; Id., Etica, cit.
[22] Un importante tentativo di rivalutazione del concetto di epicheia in un contesto di “etica delle norme” (“etica della terza persona”) è il lavoro precedentemente citato di G. Virt, Epikie - verantwortlichen Umgang mit Normen. Eine historisch-systematische Untersuchung zu Aristoteles, Thomas von Aquin und Franz Suarez.
[23] Per quanto riguarda il testo italiano, usiamo la traduzione di C. Mazzarelli in Aristotele, Etica nicomachea. Testo greco a fronte, Rusconi, Milano 1993. Il passo del libro V che ora studiamo (1137 a 31-1138 a 3) si trova a pp. 221-223. In alcuni casi ci discostiamo dal testo di Mazzarelli. Egli, per esempio, traduce ejpieivkeia con “equità”, traduzione che a noi sembra da evitare, per motivi che saranno spiegati man mano che progredisce lo studio. Conserviamo invece la traduzione di to; ejpieike;" con “l’equo”, perché non esiste in italiano una forma aggettivale e pronominale derivata da epicheia.
[24] Etica nicomachea, 1137 b 11-1138 a 3. Abbiamo indicato i termini greci nei casi in cui la traduzione è discutibile e anche quando essi possiedono un particolare interesse per la comprensione del senso di quanto si afferma.
[25] Etica nicomachea, II, 6, 1106 b 36. Per uno studio monografico su questo concetto mi permetto di rimandare al mio lavoro La scelta etica. Il rapporto tra libertà e virtù, Ares, Milano 1988.
[26] Cfr. In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum Expositio, Marietti, Torino-Roma 19643, lib. II, lectio 7, n. 322.
[27] Questo è stato capito perfettamente da S. Tommaso: «Secundum est actus virtutis moralis [...] Et hoc tangit cum dicit electivus, idest secundum electionem operans» (In decem libros Ethicorum..., cit., lib. II, lectio 7, n. 322). «Proprium virtutis moralis est facere electionem rectam» (Summa Theologiae, I-II, q. 65, a. 1, c.). «Omnis actus virtutis potest ex electione agi: sed electionem rectam agit sola virtus quae est in appetitiva parte animae [...] Unde habitus electivus, qui scilicet est electionis principium, est ille solum qui perficit vim appetitivam: quamvis etiam aliorum habituum actus sub electione cadere possint» (Summa Theologiae, I-II, q. 58, a. 1, ad 2).
[28] Cfr. V. Frosini, La nozione di equità, in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano 1966, pp. 69-70.
[29] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 77, nota 22.
[30] Cfr. K. Kuypers, Recht und Billigkeit bei Aristoteles, «Mnemosyne. Bibliotheca Classica Batava», III serie, 5 (1937), p. 294.
[31] Cfr. L. Bagolini, Il problema della giustizia nel pensiero etico-politico di Aristotele, Milano 1941, p. 19.
[32] Armando Plebe traduce invece «non è rigido nella legge in ciò che porta al peggio».
[33] Cfr. F. d’agostino, Epieikeia..., cit., p. 82.
[34] Cfr. l.j. Riley, Nature and Use of Epikeia in Moral Theology, cit., p. 22.
[35] In decem libros Ethicorum..., cit., lib. V, lectio 16, n. 1090; vedi anche n. 1078.
[36] Cfr. ibid., nn. 1082, 1083 e 1086.
[37] Cfr. ibid., n. 1079; il corsivo è mio.
[38] Cfr. ibid., nn. 1083-1085.
[39] Ibid., n. 1081.
[40] Ibid., n. 1085.
[41] Ibid., n. 1086.
[42] In questo momento non ci interessa assumere il punto di vista dell’esegesi aristotelica, e domandarci se nel richiamarsi al diritto naturale S. Tommaso va oltre il testo commentato o rispetta invece la mens di Aristotele. Noi stiamo studiando il testo aristotelico in quanto esso è la base della tradizione morale cattolica, e quindi ci interessa soprattutto capire il modo in cui esso è stato letto da S. Tommaso.
[43] Ibid., n. 1089.
[44] Aristotele, Retorica, I, 13, 1374 a 26-31; 1374 b 1-21. Riportiamo la traduzione di Armando Plebe pubblicata nel volume 10 delle Opere di Aristotele, Laterza, Bari 1988, pp. 56-57.
[45] v. Frosini, La nozione di equità, cit., p. 71.
[46] Cfr. canone 19 del CIC del 1983.
[47] Così la pensa F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 96.
[48] Cfr. le ipotesi formulate da F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., pp. 98-100.
[49] Cfr. h.g. Gadamer, Verità e metodo, introduzione e traduzione di G. Vattimo, Bompiani, Milano 19852, pp. 359, 363 ss.
[50] Per un primo approccio, cfr. M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, pp. 265-276. Altre indicazioni utili in G. Ripanti, Gadamer, Cittadella Editrice, Assisi 1978; M. Renaud, Réflexions théologiques sur l’herméneutique de Gadamer, «Revue Théologique de Louvain», (1972), pp. 426-448; C. Benincasa, La struttura dell’ermeneutica in H.G. Gadamer, «La Scuola Cattolica», 98 (1970), pp. 312-326; F. Inciarte, Hermenéutica, «Atlántida», 48 (1970), pp. 649-656; A. de Waelhens, Sur une herméneutique de l’herméneutique, «Revue Philosophique de Louvain», 60 (1962), pp. 573-591; u. Regina, Anticipazioni valutative e apertura ontologica nelle teorie ermeneutiche di M. Heidegger, R. Bultmann, H.G. Gadamer, in G. Galli (a cura di), Interpretazioni e valori, Marietti, Torino 1982, pp. 139-172; E. Berti, Crisi della razionalità e metafisica, «Verifiche», 4 (1980), pp. 389-421. Sull’influsso di Gadamer nell’ermeneutica biblica si veda P. Grech, La nuova ermeneutica: Fuchs ed Ebeling, in Esegesi ed Ermeneutica. Atti della XXI settimana biblica (Associazione Biblica Italiana), Paideia, Brescia 1972, pp. 71-90.
[51] Mi sono occupato del problema, da una prospettiva generale, in Sulla fondazione trascendentale della morale cristiana, in Aa. Vv., Persona, verità e morale, Città Nuova Editrice, Roma 1987, pp. 61-78.
[52] h.g. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 376.
[53] Cfr. ibid., p. 395.
[54] Ibid., p. 360.
[55] Cfr. ibidem.
[56] Cfr. ibid., pp. 363-376.
[57] Cfr. ibid., p. 369.
[58] Ibid., pp. 369-370. In nota Gadamer spiega che per Melantone la ratio dell’epicheia è che «lex superior preferenda est inferiori».
[59] Ibid., p. 372. Non entriamo adesso nel problema esegetico del testo di Aristotele, che avrebbe bisogno di uno studio attento e particolareggiato.
[60] Con altre parole: «Nella misura in cui il vero oggetto dalla comprensione storica non sono degli eventi ma il loro ‘significato’, tale comprensione non si può adeguatamente definire parlando di un oggetto a sé stante e di un accesso ad esso da parte del soggetto. In realtà la comprensione storica implica costitutivamente che il dato storico che in essa incontriamo parla sempre al nostro presente e che deve essere capito in questa mediazione, anzi come questa mediazione». E in riferimento ai problemi giuridici e teologici, aggiunge di seguito: «L’ermeneutica giuridica non rappresenta dunque un’eccezione, ma è un esempio appropriato a far recuperare all’ermeneutica storica tutta la sua problematica, ricostituendo l’antica unità del problema ermeneutico, unità nella quale il giurista e il teologo si incontrano con il filologo» (ibid., p. 381).
[61] Di E. Betti, si veda l’importante lavoro Teoria generale della interpretazione, Giuffrè, Milano 19902.
[62] E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito (a cura di G. Mura), Città Nuova, Roma 1987, p. 92. Il testo era stato pubblicato in tedesco nel 1962.
[63] Cfr. e.d. Hirsch, Teoria dell’interpretazione letteraria, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 257-278; P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, Pratiche, Parma 1979, p. 25.
[64] Per un chiarimento della terminologia adoperata nei dibattiti attuali si veda la bibliografia citata nelle note 20 e 21.
[65] Verità e metodo, cit., p. 15.
[66] Ibid., p. 372.
[67] Il problema si ripropone in termini analoghi nei moralisti cattolici che si muovono all’interno della prospettiva normativistica moderna. Cfr. A. Rodríguez Luño, “Veritatis splendor” un anno dopo. Appunti per un bilancio (II), «Acta Philosophica», 5 (1996), pp. 70-75.
[68] Cfr. per esempio l’esposizione dell’epicheia in K. Demmer, Interpretare e agire. Fondamenti della morale cristiana, Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pp. 61 ss.
[69] Per un’analisi dei testi cfr. F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., pp. 101-109.
[70] Ibid., p. 114.
[71] Cfr. Seneca, De Clementia, II, 5, 1.
[72] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 122.
[73] H. Preisker, voci ejpieivkeia - ejpieikhv", in Kittel-Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1967, vol. III, pp. 703-710; A. Di Marino, L’epikeia cristiana, «Divus Thomas», 29 (1952), pp. 396-424; R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments, Tübingen 19542, pp. 560, 562, 565-566; A. von Harnack, “Sanftmut, Huld und Demut” in der alten Kirche, «Festgabe Kaftan», Tübingen 1920, pp. 113-129.
[74] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 157.
[75] Questa notula è stata pubblicata dagli editori leonini delle Opere di S. Tommaso, volume XLVII, Sententia libri Ethicorum, vol. II, Romae 1969, p. 321, n.1. La traduzione del Grossatesta si trova anche nell’Aristoteles latinus e nell’edizione critica del commento di S. Alberto all’Etica nicomachea.
[76] Cfr. F. D’Agostino, La tradizione dell’epieikeia nel medioevo latino. Un contributo alla storia dell’idea di equità, cit., pp. 49-50. Su l’epicheia in S. Alberto si veda: E. Pérez, Valor normativo de los principios universales de derecho natural según San Alberto Magno, «Angelicum», 48 (1971), pp. 378-447; M. Müller, Der hl. Albertus Magnus und die Lehre von der Epikie, cit., pp. 165-182; E. Hamel, L’usage de l’épikie, cit., pp. 48-81; le pp. 49-54 sono dedicate a S. Alberto.
[77] Cfr. F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 51.
[78] Ora è disponibile l’edizione critica curata dall’Istituto Alberto Magno di Colonia: Alberti Magni, Opera Omnia, tomo XIV, pars I, Super Ethica Commentum et Quaestiones, I vol. a cura di W. Kübel, Münster 1968-1972. La sezione dedicata all’epicheia si trova nel commento al libro V di Aristotele, lectio 15, pp. 378-383. Citeremo quest’edizione come Super Ethica....
[79] Allo scopo di capire il pensiero di S. Alberto non è necessario soffermarsi nel mostrare che la sua analisi etimologica non è filologicamente accettabile.
[80] Super Ethica..., cit., p. 384 [il corsivo è mio].
[81] Super Ethica..., cit., p. 379.
[82] Super Ethica..., cit., p. 385.
[83] Così la pensa F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 59. Si tratta di un aspetto complicato e discutibile. Si dovrebbe valutare fino a che punto il giudizio di D’Agostino risente della interpretazione di Aristotele proposta da Gadamer, sulla quale già abbiamo espresso la nostra opinione.
[84] Cfr. Super Ethica..., cit., p. 379.
[85] Super Ethica..., cit., p. 380.
[86] Super Ethica..., cit., p. 381.
[87] S. Tommaso D’Aquino, Quaestiones Disputatae De Malo, q. 15, a. 1, ad 5.
[88] S. Alberto Magno, In Evangelium Matthaei, ed. Borgnet, Parigi 1893, tomo XXI, pp. 71-72.
[89] Cfr. E. Hamel, L’usage..., cit., pp. 52-53.
[90] Cfr. J. Dunabin, The two commentaries of Albertus Magnus on the Nicomachean Ethics, «Recherches de Théologie ancienne et médiévale», 32 (1963), p. 232; F. D’Agostino, La tradizione..., cit., pp. 70-76.
[91] F. D’Agostino, La tradizione..., cit., pp. 73-74.
[92] Ibid., p. 76.
[93] Su questo punto mi sembra fondamentale lo studio di G. Abbà Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di S. Tommaso d’Aquino, las, Roma 1983.
[94] S. Tommaso d’Aquino, Quaestiones Disputatae De Malo, q. 2, a. 6. Cfr. nello stesso senso Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 3.
[95] Cfr. lib. III, d. 33, q. 3, a. 4, q.la 5 e nello stesso libro d. 37, q. 1 art. 4.
[96] Cfr. per esempio Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 3, ad 1; q. 96, a. 2, ad 2; q. 96, a. 6, ad 3. Ma l’osservazione è ricorrente nelle opere di S. Tommaso.
[97] Cfr. M. Rhonheimer, La filosofia politica di Thomas Hobbes, Armando, Roma 1997, pp. 214 ss.
[98] S. Tommaso d’aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 58, a. 5.
[99] Typographia Poliglotta S.C. De Propaganda Fide, Roma 1891. Citiamo il testo latino del Gaetano secondo questa edizione.
[100] Cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 100, a. 8.
[101] Cfr. A. Rodríguez Luño, “Veritatis splendor” un anno dopo. Appunti per un bilancio (II), «Acta Philosophica», 5 (1996), pp. 70-75. Ovviamente il problema non diventa del tutto chiaro se non si tiene presente che S. Tommaso, e in generale le etiche delle virtù, hanno un concetto di ragione pratica molto diverso dalle etiche legaliste e normativiste quali il proporzionalismo.
[102] F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 119.
[103] Cfr. E. Gilson, Jean Duns Scot. Introduction a ses positions fondamentales, Vrin, Parigi 1952, p. 48. Su Scoto, oltre all’opera di Gilson, sono di notevole utilità: w. Höres, La volontà come perfezione pura in Duns Scoto, Liviana Editrice, Padova 1976, e B. Bonansea, L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Jaca Book, Milano 1991.
[104] Di volontarismo vero e proprio si può parlare con Ockham. L’impostazione teologica di Giovanni Duns Scoto è molto più articolata, e su di essa non è possibile dire qualcosa di sensato in poche parole.
[105] Per una descrizione particolareggiata, si veda G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale?..., cit. pp. 74-103.
[106] F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 127.
[107] Cfr. ibid., pp. 127 e 156.
[108] Cfr. ibid., p. 128.
[109] Ibid., p. 159.
[110] Guglielmo di Ockham, Octo quaestiones de potestate papae, q. 1, c. 17, in Opera politica (ed. Sikes, 1940), vol. I, p. 61.
[111] Su questo problema, sono fondamentali i diversi studi di De Lagarde.
[112] Cfr. su tutto ciò F. D’Agostino, La tradizione..., cit., pp. 163-174.
[113] Ibid., p. 173.
[114] Sull’impostazione generale della morale di Suárez, cfr. G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale?, cit., pp. 83-85; V. Abril Castelló, Génesis de la doctrina suareziana de la ley, «Anuario de Filosofía del Derecho», 16 (1971/1972), pp. 163-187; F. Carpintero, La génesis del Derecho Natural racionalista en los juristas de los siglos XII-XVIII, «Anuario de Filosofía del Derecho», 18 (1975), pp. 263-305; R. Ceñal, Los fundamentos metafísicos de la moral según Suárez, «Revista de Filosofía», 7 (1948), pp. 721-735; E. Elorduy, La realidad jurídico-moral. Esquema histórico, «Anales de la Cátedra Francisco Suárez», I (1961), pp. 3-29; Id., La moral suareziana, «Anuario de la Asociación Francisco de Vitoria», 6 (1943/45), pp. 97-189; C. Giacon, Suárez, Brescia 1944; E. Gómez Arboleya, La antropología de Francisco Suárez y su filosofía jurídica, «Anuario de la Asociación Francisco de Vitoria», 6 (1943/45), pp. 29-96; E. Guerrero, Sobre el voluntarismo jurídico de Suárez, «Pensamiento», 1 (1945), pp. 447-470; C. Larrainzar, Una introducción a Francisco Suárez, eunsa, Pamplona 1977; R. Macia, Juricidad y moralidad en Suárez, Oviedo 1967; L. Pereña, Metodología científica suareziana, nel vol. XIII del Corpus Hispanorum de Pace, csic, Madrid 1974, pp. XIX-XXXVII; Id., Génesis del Tratado de las Leyes, nel vol. XI del Corpus Hispanorum de Pace, csic, Madrid 1971, pp. XV-LIX; H. Welzel, Derecho natural y justicia material, Aguilar, Madrid 1957. Per ulteriori informazioni bibliografiche, cfr. J. Iturrioz, Bibliografía suareziana, «Pensamiento», 4 (1948), pp. 220-236, e P. Mújica, Bibliografía suareziana, Granada 1948. Sull’epicheia in Suárez, cfr. E. Elorduy, La Epikeia en la sociedad cambiante. Teoría de Suárez, «Anuario de Filosofía del Derecho», 12 (1967/68), pp. 229-255; E. Hamel, L’usage de l’épikie, cit., pp. 60-67; G. Virt, Epikie - verantwortlicher..., cit., pp. 172-233.
[115] Si tenga conto delle circostanze politiche: Suárez combatte energicamente la teoria del diritto divino del re.
[116] Cfr. E. Hamel, L’usage de l’épikie, cit., pp. 65-67.
[117] Cfr. Giovanni Paolo II, Enc. Veritatis splendor, n. 41.
[118] Citiamo questo capitolo secondo l’edizione critica pubblicata nel Corpus Hispanorum de Pace, csic, Madrid 1973. Il capitolo 16 si trova nel volume IV, pp. 77-98.
[119] De Legibus, II, 16, p. 81.
[120] Ibid., p. 82.
[121] Ibidem.
[122] Ibid., p. 83.
[123] Ibid., p. 84. Si noti, da una parte, come Suárez segue fin qui l’impostazione del Gaetano e, dall’altra, il rigore concettuale con il quale esamina il problema.
[124] Ibid., p. 87.
[125] Ibid., p. 87.
[126] Cfr. ibid., p. 88.
[127] Ibid., p. 88.
[128] Ibid., p. 89.
[129] Ibid., p. 89.
[130] Ibid., p. 89.
[131] Ibid., p. 90.
[132] Ibid., pp. 94-95.
[133] Ibid., p. 96.
[134] Ibid., p. 91.
[135] Cfr. ibid., p. 95.
[136] Ibid., pp. 97-98.
[137] D’ora in avanti citiamo i testi di Suárez secondo l’edizione delle Opera Omnia, Vivès, Parigi 1856. Il libro V si trova nel tomo V di questa edizione. In seguito indichiamo ibid. e la pagina di questo tomo.
[138] Si definisce legge irritante quella che stabilisce che un atto o un contratto eseguito in determinate condizioni o senza determinati requisiti è non solo moralmente illecito, ma anche invalido o, in certi casi, rescindibile.
[139] Ibid., p. 519.
[140] Ibid., pp. 519-520.
[141] Questo libro è contenuto nel tomo VI dell’Opera Omnia.
[142] Ibid., p. 27.
[143] S. Tommaso d’aquino, In decem libros Ethicorum..., cit., lib. V, lectio 16, n. 1078; vedi sopra sezione II, 2.2.
[144] Cfr. F. Suárez, De Legibus..., cit., p. 30.
[145] Ibid., p. 31.
[146] Ibidem.
[147] Ibid., p. 32.
[148] Ibidem.
[149] Ibidem.
[150] Ibidem.
[151] Ibidem.
[152] Ibid., p. 33 [il corsivo è mio].
[153] Ibidem.
[154] Ibid., p. 34 [il corsivo è mio].
[155] Siamo sempre nel tomo VI dell’Opera Omnia, p. 579.
[156] Ibid., p. 579.
[157] Ibid., p. 581.
[158] Ibid., pp. 581-582.
[159] Ibid., p. 583.
[160] Cfr. ibid., pp. 582-587.
La virtù dell’epicheia. Teoria, storia e applicazione (I). Dalla Grecia classica fino a F. Suárez (1997)*
Angel Rodríguez Luño
Sommario: I. Introduzione. II. L’epicheia nella Grecia classica. 1. Platone. 2. Aristotele. 2.1 L’Etica Nicomachea. 2.2 Il Commento tomista all’Etica Nicomachea. 2.3 La Retorica. 2.4 L’interpretazione ermeneutica di H.G. Gadamer. 3. Il periodo ellenistico. III. L’epicheia nella tradizione morale cattolica fino al De Legibus di F. Suárez. 1. Epicheia greca ed epicheia cristiana. 2. Sant’Alberto Magno. 3. San Tommaso d’Aquino. 3.1 La quaestio 96 della Prima Secundae. 3.2 La quaestio 120 della Secunda Secundae. 3.3 Il Commento del Cardinale Gaetano. 4. La tradizione volontaristica. 5. Francisco Suárez. 5.1 Il libro II De Legibus. 5.2 Il libro V De Legibus. 5.3 Il libro VI De Legibus. 5.4 Il libro X De Legibus.
I. Introduzione
Se è vero che molti aspetti storici e sistematici concernenti l’epicheia sono stati chiariti negli studi pubblicati negli ultimi sessanta anni[1], sembra innegabile tuttavia che sussistono ancora dubbi e discussioni per quanto riguarda l’interpretazione etica di fondo dell’epicheia e la sua applicazione a singoli problemi morali. Ciò si è reso palese già dopo la pubblicazione dell’enciclica Veritatis splendor[2]. Successivamente, in occasione della Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 14 settembre 1994[3], il problema è stato riproposto in termini molto concreti, giacché alcuni studiosi hanno obiettato che sulla base dei principi dell’epicheia e dell’aequitas canonica sarebbe stato possibile raggiungere una soluzione diversa per il suddetto problema morale e pastorale[4].
Il presente studio intende essere un contributo all’approfondimento complessivo del concetto e dell’applicazione dell’epicheia[5]. Data l’ampiezza della materia, pubblichiamo il nostro lavoro diviso in due parti. La prima inizia con la Grecia classica e finisce con lo studio del De Legibus di F. Suárez. È il periodo forse più creativo, nel quale vengono messe le basi di quanto la manualistica tramanderà per molti anni. La seconda parte, che sarà pubblicata nel prossimo fascicolo di questa stessa rivista, prenderà lo spunto dal Cursus Theologicus dei Salmanticensi e arriverà fino ai nostri giorni, quando, nel contesto dei grandi dibattiti sul rinnovamento della morale, sono state avanzate nuove ipotesi sulla natura e sul ruolo dell’epicheia. Solo dopo aver cercato di capire che cosa è e come è stata usata l’epicheia nella tradizione morale cattolica, affronteremo, nell’ultima sezione della seconda parte di questo studio, il problema morale concreto dei fedeli divorziati risposati. In questo modo si intende evitare che l’oggettività dello studio storico e sistematico possa venir intaccata dall’insieme di emozioni e reazioni che un problema pastorale così delicato e vivamente sentito tende giustamente a suscitare.
Allo scopo di chiarire la problematica etica di fondo dell’epicheia, ci soffermeremo sullo studio diretto degli autori e dei testi che consideriamo più significativi. Per completezza verrà data notizia anche di aspetti storici di minore rilevanza, servendoci a tale scopo degli ottimi studi storici esistenti.
II. L’EPICHEIA NELLA GRECIA CLASSICA
Il termine e il concetto stesso di epicheia (ejpieivkeia) ha la sua origine nella Grecia classica, e perciò lo studio delle fonti letterarie greche è indispensabile. Si trovano precisi riferimenti in autori molto distanti tra loro come Gorgia e Aristotele, Tucidide e Plutarco, Esiodo ed Euripide, nonché nel vasto materiale papiraceo esistente. L’analisi di queste fonti mette in luce la complessità semantica del termine epicheia, che non è necessario studiare particolareggiatamente in questa sede[6]. Per il nostro scopo è sufficiente lo studio dei passi aristotelici considerati comunemente come il locus classicus del concetto di epicheia. Riteniamo conveniente tuttavia dedicare alcuni cenni a Platone e allo stoicismo.
1. Platone
Quando è usato in senso generico, il termine ejpieivkeia possiede in Platone un significato ormai stabile, il quale non permette però una traduzione univoca in lingua italiana; a seconda dei contesti, infatti, dovrà essere tradotto con “equità”, “convenienza” o “moderazione”[7]. Per quanto riguarda la problematica dell’epicheia in senso specifico sono importanti due passi: Politico 294 a-301 a, e Leggi, VI, 757 a ss. In entrambi il problema viene collocato in un contesto politico.
Veniamo in primo luogo al Politico. Con parole di Jaeger, la tesi centrale di questo dialogo è che «il perfetto monarca sarà sempre da preferire alla più perfetta legislazione, perché la legge irrigidita nella scrittura non si può adattare con sufficiente prontezza al mutar delle situazioni e non permette perciò di fare nel necessario momento ciò che è veramente necessario»[8]. Mentre si muove sul piano ideale, Platone è convinto dei limiti delle leggi scritte che, essendo generali, non possono «attribuire con precisione a ciascun individuo ciò che gli conviene»[9]. Il governante perfetto, invece, è egli stesso ejpieikhv", e perciò dove si trova un governante perfetto diventa superflua sia la giustizia legale sia l’ipotesi di una libera esplicazione nel suddito di una virtù speciale quale sarà l’epicheia aristotelica. Ma Platone sa che, sul piano reale, è difficile trovare un governante perfetto, e sa che è quasi impossibile prevedere tutti i possibili casi concreti. L’ideale platonico implica inoltre il rischio di cadere sotto il dominio di incompetenti e crudeli tiranni. Perciò Platone conclude affermando che il governo delle leggi è sul piano reale la migliore soluzione politica. Pur nei limiti derivati dal loro carattere generale, le leggi devono essere fatte rispettare con rigore assoluto, senza eccezioni di sorta[10]: «Io credo, infatti, che contro le leggi stabilite sulla base di una lunga esperienza e per consiglio di uomini che le hanno meditate con cura nei singoli particolari e che hanno persuaso la popolazione a promulgarle, chi osasse agire contro questi leggi, commetterebbe un errore, sconvolgendo ogni attività in misura ancora maggiore di quanto facciano le leggi scritte»[11].
Assai difficile e controversa è l’interpretazione di Leggi, VI, 757 a ss. Il discorso verte sull’eguaglianza dei cittadini nei confronti dello Stato. C’è un’eguaglianza (o giustizia) materiale, che consiste nel dare e pretendere lo stesso da tutti. C’è un’altra eguaglianza, che è «vera e ottima», ed è l’eguaglianza proporzionale: «essa attribuisce a chi è di più, di più e a chi è di meno, di meno, dando in giusta misura secondo la natura di ognuno»[12]. Discernere questa seconda e ottima forma di eguaglianza è molto difficile, «corrisponde al giudizio di Zeus»[13]. E subito aggiunge che, purtroppo, «non c’è Stato che non sia costretto a ricorrere a compromessi su questi significati di giustizia, se non vuole essere sconvolto da endemiche sommosse. In effetti, l’egualitarismo (ejpieike;") e l’indulgenza (xuggnwvmon) non sono che infrazioni della perfezione e della purezza della giustizia»[14].
Autori come Egenter e Müller interpretano questo passo nel senso di una sconfitta del diritto di fronte al non governabile individuale[15]. Hamel da parte sua vede in esso un segno di evoluzione rispetto alla posizione finale del Politico; e così scrive: «In praxi tamen, concedit Plato, deviationes a vero iure et a vera iustitia acceptandae sunt. Coram casibus singularibus, lex generalis saepe cedere debet de iure suo. Illa exceptio et deviatio est epikeia»[16]. D’Agostino ritiene invece che un’analisi accurata del testo platonico evidenzia che queste interpretazioni, e particolarmente quella di Hamel, non sono corrette. L’egualitarismo (l’epicheia nel testo delle Leggi) si oppone alla divkh (giustizia), e non ai novmoi (alle leggi). Corrisponderebbe alla divkh un novmo;" individualizzante, non generalizzante, che potrebbe essere attuato solo da un governante perfetto. «Proprio la tensione verso un’eguaglianza individualizzata ci conforta a ritenere che per Platone il vero opposto dell’ideale non fosse l’individuale, ma quel generale che trova espressione sclerotizzata e priva di forza vivente nella legislazione, e poco importa ora se in qualche modo la legislazione venga riconosciuta indispensabile da Platone sul piano empirico, ed anche, come nel Politico, tutelata duramente. È questo l’equivoco che va tolto di mezzo risolutamente: nel passo preso in considerazione non siamo in presenza di un adattamento al particolare, ma al generale: e la forzata concessione ai desiderata della massa serve a riaffermare e contrario la validità del principio individualizzante»[17], vale a dire, dell’ottima eguaglianza proporzionale.
La differenza di quest’interpretazione riguardo a quella proposta da Hamel può sembrare sottile, ma è assai importante. Platone si lamenta dal fatto che nella pratica la vera giustizia, che è adeguata al singolo, sia costretta a cedere il passo alle leggi generali che al singolo non si adeguano perfettamente. Da questa prospettiva è chiaro che non può dire in modo alcuno che per adeguarsi al singolo siano da accettare «deviationes a vero iure et a vera iustitia»: nell’adeguamento al singolo sta appunto per Platone la vera giustizia. La traduzione a cura di Reale sembra rendersi conto dell’equivoco, e perciò in questo caso traduce ejpieike;" con “egualitarismo”. Comunque è un fatto che nelle Leggi Platone si mostra ostile a ogni innovazione, e come nel Politico raccomanda anche qui il rispetto delle leggi senza eccezioni[18].
Possiamo dire, in sintesi, che Platone è consapevole dei limiti che hanno le leggi politiche in virtù del loro carattere generale, e nel contempo manifesta una viva sensibilità verso il valore della singolarità. Ma è anche vero che «in Platone si determina per la prima volta con chiarezza un certo riserbo verso le possibilità (teoricamente anche eversive) che l’individualizzazione può causare [...] Ciò non significa, come si è visto, mancanza di comprensione per l’elemento singolo: ma certamente sfiducia verso quell’individualizzazione che perseguita arbitrariamente non può che cadere nell’individualismo»[19]. È da rilevare ugualmente che la figura dell’epicheia come virtù esclusiva del governante, ben diversa dalla virtù morale propria dell’uomo in quanto tale che sarà prospettata da Aristotele, rappresenta un’alternativa destinata a riproporsi lungo la storia del pensiero etico occidentale, come avremo occasione di vedere in questo studio.
2. Aristotele
Lo studio aristotelico dell’epicheia costituisce senza dubbio un momento culminante della storia di questo concetto. E ciò va affermato non solo perché tale studio è il più classico e il più organico, ma anche perché il suo influsso sulla tradizione morale cattolica è stato determinante. I testi principali da studiare sono due: l’Etica Nicomachea, libro V, 1137 a 31-1138 a 3 e la Retorica, libro I, 1374 a-1375 b. Anche la Grande Etica, II, 1198 b -1199 a contiene un ampio riferimento, sul quale però non sembra necessario soffermarsi specificamente, dato che non contiene aspetti sostanzialmente nuovi.
2.1 L’Etica Nicomachea
L’esatta comprensione del testo che stiamo per studiare richiede che si dica qualche cosa sul contesto costituito dall’Etica Nicomachea. Non è necessario insistere sul fatto, da tutti conosciuto, che Aristotele possiede una concezione del sapere etico e politico ben diversa da quella platonica. Conviene invece segnalare che l’etica aristotelica è la prima e la più classica edizione di un’etica della vita buona e delle virtù, cioè di ciò che oggi viene chiamato «etica della prima persona»[20].
Un’etica delle virtù in senso tecnico, quale è l’etica aristotelica, non è semplicemente un’etica che assume le virtù morali come schema classificatorio dei problemi etici da studiare. L’etica delle virtù è un preciso e specifico modo di concepire il sapere e la vita morale, alternativo a tutti gli altri, e che è caratterizzato: a) da una teoria della ragione pratica, dei suoi principi, delle sue condizioni e della sua attività; b) da una propria teoria dell’azione; c) e da un modo particolare di intendere il ruolo della norma e il suo rapporto con le virtù morali in quanto principi pratici[21]. Naturalmente, queste caratteristiche rispondono a dei precisi presupposti antropologici, ontologici e — in teologia morale — anche teologici. Su queste considerazioni dovremo ritornare più avanti, perché si riveleranno decisive per capire correttamente il concetto di epicheia. Adesso basta tener presente che esso è originariamente un concetto caratteristico di un’etica delle virtù, come sono in generale le etiche greche. Qualora esso venisse impiegato in un contesto etico diverso da quello originario, è probabile che emergano delle aporie di diverso tipo[22].
Aristotele si occupa dell’epicheia verso la fine del libro V dell’Etica Nicomachea, libro dedicato alla giustizia. Si vuole determinare il rapporto tra l’epicheia e la giustizia, giacché se «si esaminano attentamente, risulta manifesto che non sono senz’altro la stessa cosa e che tuttavia non differiscono di genere»[23]. Aristotele sembra trovarsi davanti ad un’aporia: «ci appare strano che l’equo (to; ejpieike;"), che è qualcosa di ulteriore rispetto al giusto, sia tuttavia degno di lode: infatti, se sono diversi, o il giusto non è buono o l’equo non è giusto; o se entrambi sono buoni, essi sono la stessa cosa». Per risolvere l’aporia, Aristotele spiega che cosa è veramente l’epicheia in un passo che riportiamo interamente:
«Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì giusto, ma non il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale (ejpanovrqwma nomivmou dikaivou). Il motivo è che la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente in universale. Nelle circostanze, dunque, in cui è inevitabile parlare in universale, ma non è possibile farlo correttamente, la legge prende in considerazione ciò che si verifica nella maggioranza dei casi, pur non ignorando l’errore dell’approssimazione. E non di meno è corretta: l’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma nella natura della cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica. Quando, dunque, la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in senso assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’equo: un correttivo della legge (ejpanovrqwma novmou), laddove è difettosa a causa della sua universalità. Questo, infatti, è il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sono dei casi in cui è impossibile stabilire una legge, tanto che è necessario un decreto. Infatti, di una cosa indeterminata anche la norma è indeterminata, come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo: il regolo si adatta alla configurazione della pietra e non rimane rigido, come il decreto si adatta ai fatti. Che cosa è dunque l’equo, e che è giusto e migliore di un certo tipo di giusto, è chiaro. Da ciò risulta manifesto anche chi è l’uomo equo: è equo infatti chi è incline a scegliere e a fare effettivamente (oJ gavr tw`n toiouvtwn proairetiko;" kai praktikov") cose di questo genere, e a chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge. Questa disposizione (hJ evJxi") è l’epicheia, che è una forma speciale di giustizia e non è una disposizione (ti” evJxi") di genere diverso»[24].
Soffermiamoci ora sugli elementi più importanti del testo. Verso la fine abbiamo notato due volte l’uso del termine evJxi" (in latino: habitus) associato al vocabolo proairetiko;" (in latino: electivus). Se teniamo conto che Aristotele definisce la virtù morale come evJxi" proairetikhv[25], che S. Tommaso traduce con habitus electivus[26], è fuori dubbio che Aristotele intende l’epicheia come una virtù morale in senso rigoroso. Ciò significa che essa non è l’interpretazione della legge fatta dal legislatore o dal giudice quando i termini della legge sono oscuri, e non è neppure ciò che noi chiamiamo dispensa. L’epicheia è una virtù morale dell’uomo, di ogni uomo e non specificamente del governante. L’epicheia è una disposizione dell’uomo virtuoso, vale a dire, una delle virtù del ben vivere o della vita buona. Da ciò segue che l’epicheia non è, sul piano sostanziale, qualcosa di meno buono o di meno rigoroso che, in alcuni casi, tenute presenti le circostanze, può essere più o meno tollerato. L’epicheia come virtù è il principio che permette la formazione di una scelta non solo buona, ma addirittura virtuosa, e quindi eccellente e ottima[27]. Perciò dice Aristotele che «l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto». Quando si presenta il caso, l’epicheia non è qualcosa che può essere benevolmente invocata, ma è il principio necessario dell’unica scelta che, in quel caso, è giusta e virtuosa; senza di essa la scelta sarebbe stata moralmente negativa. Aristotele presenta l’epicheia come perfezione e coronamento della giustizia, e non come una tecnica interpretativa per diminuire le sue esigenze etiche.
Aristotele definisce l’epicheia come un correttivo della legge, laddove la legge è difettosa a causa della sua universalità. Tre cose importanti sono da notare in questa definizione. La prima è che Mazzarelli traduce ejpanovrqwma con “correttivo”. V. Frosini traduce invece con “correzione e supplemento”[28]. D’Agostino preferisce tradurre con “direzione”. Egli ritiene che «l’esatta accezione di ejpanovrqwma si impoverisce se il termine viene tradotto con correttivo [...]: infatti Aristotele stesso sottolinea che il problema non è correggere un errore insito nella legge, ma dirigerla a una giusta applicazione al caso. Giustamente quindi la prima versione latina dell’Etica Nicomachea, dovuta a Roberto Grossatesta, rendeva ejpanovrqwma con directio»[29].
È da rilevare in secondo luogo che ciò che viene corretto o diretto nella sua applicazione è la legge o il giusto legale. Aristotele non precisa altro, ma sembra chiaro che egli intende riferirsi alle leggi della polis, fatte dai legislatori umani, il che non toglie che in queste leggi si esprimano anche valori etici. Va detto infine che l’epicheia si applica a leggi difettose a causa della loro universalità. Questo difetto si verifica quando «la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale». Sembra chiaro ciò che Aristotele intende affermare: può succedere che un comportamento, materialmente descritto, coincida con quello contemplato dalla legge, ma che in realtà non rientri affatto in essa. In questo caso l’epicheia evita l’ingiustizia che si produrrebbe quando un’azione venisse regolata o addirittura punita sulla base di una norma sotto la quale l’azione non rientra. Si potrebbe aggiungere che una tale ingiustizia normalmente provoca, in colui che la subisce, dolore, disagio o malcontento, e così il dolore, il disagio o il malcontento possono essere segno dell’ingiustizia. Ma, in senso rigoroso, l’epicheia è una virtù che permette di agire con giustizia in quei casi, e non un semplice espediente per evitare l’osservanza di una legge solo perché tale osservanza risulta difficile. Su questo punto si tornerà più avanti a proposito di Suárez.
C’è da chiedersi inoltre a quali criteri si ispira l’epicheia per applicare correttamente la legge nei casi in cui non sarebbe giusto applicarla letteralmente. Aristotele afferma unicamente che allora è legittimo «considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione». Ciò sembra costituire un richiamo all’intenzione del legislatore e alla ratio iustitiae che ispira la legge. Tra gli studiosi, l’opinione un tempo più in voga era che l’epicheia si rivolge alle norme superiori del diritto naturale (così Fechner, Zeller, Wittmann e Egenter); altri ritengono invece che l’epicheia si rivolge piuttosto alla realtà non predeterminabile e al naturale sentimento di ciò che è giusto[30], oppure all’intrinseca necessità razionale della legge[31].
Le ultime righe del testo in esame mirano alla determinazione caratteriologica dell’uomo che possiede l’epicheia: «non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio[32], ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge». Commenta D’Agostino: «Il passo ha — si può dire da sempre — suscitato delle perplessità: si è vista una duplicità di posizione nella dottrina di Aristotele, il tentativo di accordare una visione dell’ejpieivkeia come momento dinamico del diritto (e quindi formale o meglio coesteso alla sua struttura) con una visione materiale, da identificarsi con valori extragiuridici, quali la convenienza, l’umanità, la ragionevolezza»[33]. Lo stesso problema è segnalato dal Riley[34]. Il problema potrà essere approfondito ulteriormente, anche se altri testi aristotelici fanno pensare che il problema va considerato in una prospettiva di diritto privato, dove una persona può non esigere ad un’altra il proprio diritto interamente per un senso di indulgenza.
2.2 Il Commento tomista all’Etica Nicomachea
S. Tommaso si occupa del testo aristotelico che stiamo studiando nella lectio 16 del libro V del suo Commento. Siccome il testo tomista è impostato secondo i canoni del commento letterale medievale, riportiamo in modo molto breve quanto è semplice conferma del testo aristotelico, e ci soffermiamo solo sugli aspetti più originali.
S. Tommaso conferma che l’epicheia è un habitus, una virtù, e concretamente «est quaedam species iustitiae, et non est alius habitus a iustitia legali»[35]. Seguendo la traduzione latina su cui lavora, S. Tommaso spiega che il compito dell’epicheia è la directio iusti legalis[36], afferma inoltre che «per epiichiam aliquis excellentiori modo obedit, dum observat intentionem legislatoris ubi disonnat verba legis»[37], e come Aristotele ritiene che il difetto non è proprio della legge in se stessa considerata, ma piuttosto deriva dal fatto che di certe materie non è possibile parlare in termini universali con totale esattezza[38].
Il punto in cui S. Tommaso sembra aggiungere qualcosa è il suo richiamo al diritto naturale, del quale parla Aristotele nello stesso libro V. «Verum est enim quod id quod est epiiches est quoddam iustum et est melius quodam alio iusto: quia, ut supra dictum est, iustum quo cives utuntur dividitur in naturale et legale: est autem id quod est epiiches melius iusto legali, sed continentur sub iusto naturali. Et sic non dicitur melius quam iustum, quasi sit quoddam aliud genus separatum a genere iusti. Et cum ambo sint bona, scilicet iustum legale et epiiches, melius est illud quod est epiiches»[39].
S. Tommaso propone alcuni esempi, tratti dai commenti greci del testo aristotelico, e che sono diventati classici. «Sicut reddere depositum secundum se iustum est et ut in pluribus bonum; in aliquo tamen casu potest esse malum, puta si reddatur gladius furioso»[40]. Più avanti: «Sicut in quadam civitate statutum fuit sub poena capitis quod peregrini non ascenderent muros civitatis, ne scilicet possent dominium civitatis usurpare. Hostibus autem invadentibus, peregrini quidam ascendentes muros civitatis defendunt civitatem ab hostibus, quos tamen non est dignum capite puniri. Esset enim contra ius naturale ut benefactoribus poena rependeretur. Et ideo secundum iustum naturale oportet hic dirigere iustum legale»[41]. Si vede come l’epicheia, nel primo caso, evita qualcosa di moralmente negativo e, nel secondo, evita di andare contro il diritto naturale. L’applicazione della legge positiva va regolata secondo il diritto naturale. In questa ottica, l’epicheia non è qualcosa che si può benevolmente applicare, ma va necessariamente applicata. Ciò è richiesto dalla giustizia e dall’ordine morale[42].
Non manca il riferimento all’atteggiamento proprio del virtuoso: «et dicit quod talis non est acribodikaios, idest diligenter exequens iustitiam ad deterius, idest ad puniendum, sicut illi qui sunt rigidi in puniendo, sed diminuunt poenas quamvis habeant leges adiuvantem ad puniendum. Non enim poenae sunt per se intentae a legislatore, sed quasi medicina quaedam peccatorum. Et ideo epiiches non plus apponit de poena quam sufficiat ad cohibenda peccata»[43]. Neanche qui si può evitare l’impressione di duplicità. Si passa ad un altro argomento, specificamente ad una tematica di diritto penale. Negli esempi prima riportati non si tratta di essere mite nel punire, o di non punire più di quanto basta per reprimere i peccati, ma di situazioni nelle quali punire sarebbe stato moralmente cattivo e intrinsecamente ingiusto, in quanto sarebbero state punite azioni che in realtà non rientravano nella legge che stabiliva la pena. In ogni caso, S. Tommaso propone riflessioni di notevole interesse per il diritto penale.
2.3 La Retorica
Nel libro I della Retorica Aristotele si occupa a più riprese dell’epicheia. Sono passi di interpretazione non facile, soprattutto perché rendono difficile la lettura unitaria del discorso aristotelico. Forse per questo sono spesso trascurati dagli studiosi. Il passo del libro I, 15, 1375 a 25 ss. pone problemi interpretativi riguardanti il concetto aristotelico di diritto naturale, ma resta in realtà fuori dell’oggetto del nostro studio. Maggiore interesse presenta per noi il passo 1374 a-b:
«L’equo (to; ejpieikev") sembra essere giusto, ma esso è il giusto che va oltre la legge scritta. Ciò avviene in parte per volere dei legislatori, in parte non per loro volere: il secondo caso è quando sfugge loro qualcosa, il primo quando essi non possano prescrivere esattamente, ma sia necessario dare una formula generale, che non vale universalmente, ma solo per lo più [...]
Essere equi significa essere indulgenti verso i casi umani, cioè badare non alla legge, ma al legislatore, e non alla lettera della legge, ma allo spirito del legislatore; e non all’azione ma al proponimento, e non alla parte ma al tutto, e non a come è ora l’imputato, ma come è stato sempre o per lo più. E anche il ricordare di più il bene che si è ricevuto che non il male, e il bene che si è ricevuto più di quello che si è fatto. E il sopportare l’ingiustizia. E il voler giudicare con la parola piuttosto che con l’azione; e preferire un arbitrato piuttosto che una lite in tribunale; infatti l’arbitro bada all’equità, il giudice alla legge; e l’arbitrato è stato inventato proprio per questo, per dar forza all’equità»[44].
La prima parte del testo distingue due casi. Il secondo caso corrisponde a quello studiato nell’Etica Nicomachea. Il primo, invece, sembra considerare l’epicheia non più come direzione del giusto legale, ma come fonte giuridica suppletiva idonea a colmare le lacune dell’ordinamento legale, in stretto legame con l’arbitrato. Da questo punto di vista il testo della Retorica è stato rivalutato in Italia dal Frosini. È importante notare — scrive questo autore — che «Aristotele mostra di voler dare dell’equità una interpretazione propriamente ‘giuridica’, e non già astrattamente etica (come pure è stata intesa non di rado l’equità). Si può dire che, in definitiva, egli distingua le leggi scritte dalle leggi non scritte, e che riconosca il principio di valutazione giuridica, che è proprio delle seconde, nel principio della ‘equità’, che compendia per lui anche quelli della natura dei fatti, dei princìpi generali del diritto, e di altri ancora, cui possa farsi ricorso, per integrare le lacune di un ordinamento giuridico. L’equità è dunque per Aristotele il metodo di applicazione della legge non scritta. Essa è intesa perciò a rimediare a quella applicazione della legge, ‘che espelle dal proprio seno la giustizia, e si appaga della mera legalità’ (Piazzese), senza per questo che si debba fare ricorso alle norme del diritto naturale, che sarebbero anch’esse, comunque, delle norme, cioè delle regole generali, destinate ad infrangersi, senza potersi ripiegare, sulla dura pietra del fatto singolo da giudicare»[45]. L’aspetto sottolineato dal Frosini possiede un evidente interesse per la nozione giuridica di aequitas[46], ma in rapporto alla tradizione morale l’interesse è molto limitato, giacché in morale l’epicheia non è stata interpretata in questo senso. In morale viene vista come directio iusti legalis, e non come fonte suppletiva di diritto.
Sulla seconda parte del testo è da notare, da una parte, che sembra smentire l’idea del Frosini di una nozione di epicheia meramente giuridica, in quanto compaiono elementi irriducibili al mero diritto[47] e, dall’altra, che tali elementi richiamano l’idea platonica di epicheia come atteggiamento indulgente da parte del governante o del giudice, non facilmente armonizzabile in un discorso unitario con quanto detto da Aristotele nell’Etica Nicomachea sull’epicheia come virtù morale. Il problema può essere parzialmente risolto tenendo presente che la Retorica costituisce un contesto argomentativo attinente agli espedienti di oratoria presso i tribunali, molto diverso da quello dell’etica. Ma restano aperti altri problemi, che esulano dall’oggetto del nostro attuale studio[48].
2.4 L’interpretazione ermeneutica di H.G. Gadamer
H.G. Gadamer, uno dei principali esponenti attuali della filosofia ermeneutica, ritiene che i concetti aristotelici di phronesis e di epicheia hanno un importante punto di contatto con la sua proposta ermeneutica: sia i primi che la seconda implicano il compito dell’applicazione di un testo o di un significato universale alla situazione attuale dell’interprete[49]. Per questa ragione Gadamer si occupa della phronesis e dell’epicheia. Gadamer espone con profondità alcune caratteristiche della conoscenza pratica aristotelica, ma il contesto filosofico di Gadamer ha probabilmente ben poco in comune con la tradizione della morale cattolica[50]. Tuttavia sembra conveniente occuparci di lui, perché le linee generali della sua ermeneutica sono presenti, in diversa misura a seconda dei casi, nei teologi moralisti cattolici che seguono un’impostazione trascendentale[51].
Per Gadamer ogni comprensione implica una fusione di orizzonti, un particolare rapporto tra presente e passato. In questa prospettiva va collocata la tesi gadameriana secondo cui l’applicazione è una struttura essenziale della comprensione, nel senso che l’atto o il momento dell’applicazione è inevitabilmente presente in ogni interpretazione. L’uomo, nel comprendere, non può «prescindere da se stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova. Se vuol capire il testo, deve metterlo in rapporto proprio con questa situazione»[52]. Ma si faccia attenzione che Gadamer non intende dire che prima viene capito un testo (letterario, legislativo, biblico, ecc.) e poi viene applicato a una situazione particolare. La sua tesi è che l’applicazione rappresenta la vera comprensione del significato che un testo o un fatto storico possiede in se stesso[53]. «Il testo, sia esso la legge o la rivelazione divina, per essere compreso in modo adeguato, cioè conformemente al modo in cui esso stesso si presenta, deve venir compreso in ogni momento, ossia in ogni situazione concreta, in maniera nuova e diversa. Comprendere significa sempre, necessariamente, applicare»[54].
Lo sfondo teoretico della teoria gadameriana dell’applicazione è che la comprensione è un evento storico[55]. Viene presupposta l’appartenenza dell’interprete all’oggetto dell’interpretazione (circolo ermeneutico). L’interprete appartiene egli stesso al processo di trasmissione storica, e perciò, da un canto, l’atto di comprensione resta all’interno della storia degli effetti (Wirkungsgeschichte) del significato o del testo e, dall’altro, la comprensione del testo è sempre anche autocomprensione: la comprensione di se stesso, presupposta dall’atto di applicazione, è momento essenziale della comprensione dell’oggetto ermeneutico al quale il soggetto stesso appartiene. La comprensione è pertanto mediazione tra passato e presente, tra il testo e la situazione ermeneutica dell’interprete, oppure tra universale e particolare (universalità dell’identità ideale del testo o della legge giuridica e la particolarità delle situazioni entro le quali si verifica volta per volta la comprensione).
È appunto per esemplificare come si attua la mediazione tra universale e particolare che Gadamer si richiama all’etica aristotelica e in particolare al concetto di phronesis[56]. In questo concetto aristotelico troverebbe la sua soluzione il dilemma proprio dell’etica filosofica, vale a dire, il rapporto tra l’universalità della legge, che risponde alle esigenze del dovere assoluto e incondizionale, e la variabilità e molteplicità delle situazioni concrete, in cui si esprime la storicità della condizione umana. La phronesis, virtù intellettuale e morale allo stesso tempo, sarebbe l’esempio di un sapere, quale è anche quello ermeneutico, che non è puro e disinteressato (“oggettivo” nel senso scientifico-positivo del termine), giacché l’applicazione ne costituisce un momento essenziale. La phronesis non è applicazione logico-deduttiva di una verità universale ad un caso particolare; essa è invece sintesi, mediazione sempre storica di un’esigenza universale ad una situazione particolare. «Ciò che è giusto, per esempio, non è pienamente determinabile in modo indipendente dalla situazione in cui io devo operare giustamente»[57].
Interpretando il giudizio morale come una sintesi di logos e ethos —continua Gadamer — Aristotele avrebbe radiato dal sapere morale la pretesa di oggettività e incondizionalità sovra-storica, e nel contempo avrebbe dato in actu exercito il primo esempio di attenzione alla dimensione storica propria dell’umana conoscenza, dimensione che costituisce il problema fondamentale dell’ermeneutica. Il concetto aristotelico di epicheia sarebbe un modello di applicazione ermeneutica. E così scrive Gadamer:
«La condizione di colui che ‘applica’ la giustizia è del tutto diversa. È vero che anche lui dovrà, nel caso concreto, prescindere dall’esattezza rigorosa della legge. Ma quando ciò accade, non è perché non si può fare di meglio, bensì perché altrimenti non sarebbe giusto. Quando così ci si stacca dalla legge non si fanno dunque delle ‘riduzioni’ della giustizia, ma anzi si trova ciò che è più giusto. Aristotele esprime ciò nel modo migliore nell’analisi della epieíkeia, dell’equità, là dove dice che l’epieíkeia è la correzione della legge. Aristotele mostra che ogni legge implica una inevitabile disparità rispetto alla concretezza dell’agire, in quanto ha un carattere universale e non può contenere in sé la realtà pratica in tutta la sua concretezza [...] È chiaro che proprio qui trova posto il problema dell’ermeneutica giuridica. La legge è sempre manchevole, non perché sia imperfetta in se stessa, ma perché di fronte all’ordine che le leggi hanno di mira è la realtà umana che si mostra manchevole e non permette perciò una pura e semplice applicazione di esse»[58].
Questa interpretazione di Gadamer, che mi sembra corretta e penetrante in molti aspetti, tende ad assolutizzare l’uso dell’epicheia («la legge è sempre manchevole»), e ha come conseguenza la tesi che «il concetto di diritto naturale ha per Aristotele solo una funzione critica. Non si può fare di un tale concetto un uso dogmatico, cioè non si può attribuire a determinati contenuti del diritto la dignità e immutabilità del diritto naturale»[59]. Questa interpretazione di Aristotele mette in luce ciò che la comprensione e l’interpretazione è per Gadamer. Il ricorso all’etica aristotelica da parte di Gadamer è una scelta azzeccata, perché la conoscenza morale ha delle caratteristiche particolari (si ricordi la definizione tomista della verità pratica come conformità con l’appetito retto, e non come adeguamento dell’intelletto alla cosa), che la rendono idonea ad esemplificare il proposito generale della riflessione gadameriana. Si può dire senz’altro che questa lettura di Aristotele è pienamente coerente con i presupposti filosofici di Gadamer. Un’altra cosa è se essa sia coerente anche con i presupposti filosofici ed etici di Aristotele.
Soffermiamoci un momento sulla coerenza interna del discorso gadameriano. Come Gadamer spiega a proposito dell’interpretazione dell’opera artistica (si pensi ad un’opera musicale), non si può dire che sia una e solo una l’interpretazione giusta, perché le diverse interpretazioni costituiscono il processo storico che viene chiamato “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte), il cui soggetto è l’opera stessa, che in questo modo arricchisce il suo essere[60]. È coerente pertanto che Gadamer non tenti una (per lui impossibile) ricostruzione “oggettiva” di Aristotele, ma in realtà realizza (e, secondo lui, non può non realizzare) una mediazione. Ma allora si potrà obiettare (anche se per Gadamer il fatto non costituisce obiezione alcuna) che il pensiero di Aristotele viene forzato, non tanto per la lettura fatta del passo concreto sull’epicheia, che in sé è corretta, ma in quanto l’epicheia aristotelica viene vista come un tipo di applicazione o di mediazione che sarebbe impensabile prima di Hegel e di Heidegger.
Da un punto di vista generale si può osservare criticamente che Gadamer non sfugge ad una forma raffinata di storicismo, e così mette in pericolo la verità dell’interpretazione. Questo è il rilievo che gli è stato rivolto sul piano dell’ermeneutica giuridica da E. Betti[61]: «Ora a me pare che l’evidente punto debole del metodo ermeneutico proposto da Gadamer consiste in questo, che esso permette invero un’intesa tra testo e lettore — vale a dire una corrispondenza tra il senso del testo che si presenta in apparenza come ovvio e il soggettivo e personale convincimento del lettore —, ma non garantisce in nessun modo l’esattezza dell’intendere; per questo infatti occorrerebbe che la comprensione raggiunta corrispondesse in modo pienamente adeguato al significato oggettivo del testo quale oggettivazione dello spirito»[62]. Un rilievo simile, ma sul piano dell’ermeneutica letteraria, è stato formulato da E.D. Hirsch e da P. Szondi[63].
Da un punto di vista più specifico, occorre osservare che l’orizzonte etico di Gadamer è essenzialmente diverso da quello di Aristotele. Come si è detto sopra, per Gadamer il problema dell’etica filosofica sta tutto nel rapporto tra l’universalità della legge-dovere e la variabile molteplicità delle situazioni concrete. Aristotele si pone questo problema solo nell’ambito dello iustum politicum, vale a dire, delle leggi della polis. Nell’ambito propriamente etico, per Aristotele tutto dipende invece dalla vita buona e felice (fine ultimo dell’uomo) e dalle virtù del vivere bene. L’etica aristotelica, come quella tomista, è un’etica del fine ultimo e delle virtù, che oggi si chiama un’etica elaborata dal punto di vista della prima persona. La prospettiva di Gadamer, come in generale quella dell’etica moderna, è quella di un’etica degli atti e delle norme, che nel dibattito odierno viene denominata etica elaborata dal punto di vista della terza persona o dell’osservatore esterno[64].
Il fatto che l’etica moderna limiti la sua prospettiva alle azioni esterne e alle norme che regolano i rapporti interpersonali, abbandonando completamente il punto di vista della finalità, dipende dalla convinzione agnostica che non esiste un’unica risposta razionalmente valida al problema del bene ultimo dell’uomo. Così afferma Gadamer: «ho sottolineato che accetto completamente la kantiana critica della ragion pura e che considero quelle asserzioni che, solo in modo dialettico, risalgono dal finito all’infinito, dall’oggetto di esperienza all’essere in sé, dal temporale all’eterno, come pure espressioni di concetti limite, dalle quali la filosofia non può trarre alcuna autentica conoscenza»[65].
Per Gadamer non esiste una verità sul bene ultimo dell’uomo e, più in generale, sulle questioni esistenziali ultime, e perciò non è possibile individuare un insieme di esigenze necessarie di tale bene che, eticamente, avrebbero una validità assoluta e incondizionata. In questo contesto non è possibile ammettere l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi e di norme morali universalmente valide, e il concetto di epicheia e di applicazione viene impiegato in funzione di tale tesi. E così Gadamer afferma, come si è detto, che per Aristotele «non si può attribuire a determinati contenuti del diritto la dignità e l’immutabilità del diritto naturale»[66]. Abbiamo anche osservato che dal punto di vista dell’esegesi del testo aristotelico il problema è complicato, ma lo è soprattutto perché Aristotele esprime le esigenze veramente etiche in termini di virtù, e non di norma giuridica, e perciò dall’appena citata affermazione di Gadamer su Aristotele (che tuttavia sul piano esegetico è discutibile) non sarebbe possibile trarre in campo propriamente etico le conclusioni che Gadamer intende trarre. Gadamer non tiene conto che un modo di ragionare proprio di un’etica delle virtù non può essere trasferito automaticamente a un’etica delle norme senza alterarne profondamente il significato, e così Gadamer dà dell’etica aristotelica un’immagine vicina al relativismo che non risponde al pensiero di Aristotele[67].
In Aristotele, infatti, le cose stanno diversamente. Le virtù sono fini generali di validità assoluta e universale che, in quanto presenti stabilmente nei desideri dell’uomo virtuoso, permettono alla ragione pratica (prudenza) di individuare — quasi per connaturalità — l’azione concreta che hic et nunc può realizzarli. In questo contesto di concrezione prudente del fine desiderato grazie all’abito virtuoso si inserisce l’epicheia. Quando un’esigenza etica, che originariamente è un’esigenza di virtù, viene espressa attraverso una formulazione linguistico-normativa umana, che come tale può essere imperfetta, l’epicheia permette un perfetto adeguamento del caso concreto alla ratio virtutis. Il deposito va restituito perché restituirlo è un atto della virtù della giustizia. Nei casi eccezionali in cui restituire il deposito non è più un atto della giustizia, anzi sarebbe un atto contrario alla giustizia, la virtù dell’epicheia permette di arrivare al giudizio prudenziale che qui e ora non va restituito il deposito. L’uomo giusto (che possiede la virtù della giustizia) non può non rendersene conto. Se per esprimere questa realtà diciamo che le norme morali riguardanti la giustizia ammettono eccezioni, o che non hanno un valore universale, stiamo creando confusione, perché per Aristotele la norma etica assoluta è espressa in termini di virtù, e le virtù non ammettono eccezioni. L’epicheia è necessaria appunto perché — dica quel che dica la lettera della legge politica — la giustizia non ammette eccezioni. Come vedremo più avanti, è ovvio che Aristotele non poteva considerare l’esistenza di una legge morale divina rivelata, che è universale ma non per questo è imperfetta. Questo sarà uno dei temi da studiare quando l’epicheia diventerà una virtù morale cristiana.
L’ermeneutica gadameriana pone ulteriori problemi riguardanti la verità in generale, e non solo la verità morale, dal momento che non ammette che la filosofia ponga la verità delle cose in rapporto all’Intelligenza divina. Perciò la prospettiva gadameriana tende a dissolvere la verità delle cose nella molteplicità delle situazioni ermeneutiche umane, nella relatività delle diverse visioni del mondo storicamente condizionate. Per il nostro attuale lavoro basta aver mostrato che il concetto di epicheia quale virtù etica dell’uomo comune, quando è trasferito ad un contesto epistemologico, filosofico ed etico diverso e per molti versi incompatibile con quello aristotelico, risulta profondamente alterato nel suo significato e nella sua ragion di essere. Ciò si verifica, in gradi diversi, anche nei moralisti che seguono in teologia un’impostazione epistemologica trascendentale[68].
3. Il periodo ellenistico
La Stoa antica rifiuta il concetto di epicheia. La riflessione della Stoa antica è rigidamente ancorata al vivere secundum naturam, vale a dire, a un concetto di lex naturalis intesa come legge cosmica. In tale contesto l’individuale è irrilevante[69].
Un significativo mutamento avviene nella Stoa media. Cambiamenti culturali e politici, sui quali non è necessario soffermarsi adesso, spiegano che nella Stoa media, accanto alla lex naturalis (sempre intesa in senso stoico), vengano considerati i doveri derivati dal ruolo svolto dal singolo nella società umana. Riappare così l’epicheia come atteggiamento del principe e poi, in maniera derivata, come generale atteggiamento di clemenza. Come scrive D’Agostino, l’epicheia «nella cultura post-paneziana appare ridotta al ristretto ruolo di clemenza, considerata come kaqh~kon, un dovere che grava su chi dell’ejpieivkeia può disporre, e cioè sul principe. Ma da questa limitata accezione l’ejpieivkeia riesce a poco a poco a liberarsi, fino a giungere ad essere più genericamente intesa come una disposizione d’animo aperta all’umanità, senza dubbio molto nobile, ma filosoficamente poco pregnante»[70].
In Seneca l’epicheia appare pienamente assimilata alla clementia del governante. In tale contesto politico, Seneca distingue la clementia dalla misericordia. La prima è un atteggiamento conforme alla ragione, mentre la seconda è un vizio dei deboli. La misericordia è un vizio tipico dei vecchi e delle donne che, commosse dalle lacrime dei peggiori criminali, arriverebbero ad aprire le porte delle carceri[71]. Invece, la clementia del governante si oppone alla crudelitas, non alla severitas.
È chiaro che siamo in una linea di ragionamento forse vicina a Platone, ma molto distante da Aristotele. L’epicheia è vista come virtù del principe, non come virtù morale dell’uomo in quanto tale. Viene considerata in un contesto politico, talvolta limitato solo all’irrogazione della sanzione penale. Comunque, come osserva D’Agostino, «resta d’altra parte vero che la clementia non può essere identificata tout court con l’ejpieivkeia: il discorso di Seneca resta fondamentalmente troppo stoico per poter dar spazio a una considerazione autentica della realtà come individualizzata»[72].
III. L’EPICHEIA NELLA TRADIZIONE MORALE CATTOLICA FINO AL DE LEGIBUS DI F. SUÁREZ
1. Epicheia greca ed epicheia cristiana
Allo scopo del nostro lavoro, non sembra necessario realizzare un’indagine sulla Sacra Scrittura. Nel nostro tema essa non potrebbe non essere una semplice indagine filologica limitata, per quanto riguarda l’Antico Testamento, alla versione greca dei LXX. Accenniamo soltanto agli aspetti più importanti.
C’è da osservare in primo luogo che tra l’epicheia greca e l’epicheia cristiana esiste il rapporto di analogia che esiste generalmente tra le virtù etiche greche e le virtù etiche cristiane. Non è necessario né opportuno ripetere qui le considerazioni dei teologi medievali sulle virtù dei pagani, né affrontare il complicato tema del rapporto tra morale naturale e morale cristiana. Si può tuttavia notare che nel Cristianesimo il valore dell’individualità può ricevere una più completa fondazione nell’amore di Dio verso ogni singola persona umana, e ciò in un quadro in cui la legge naturale non è una rigida legge cosmica, ma una luce e una tendenza vitale partecipata da Dio agli uomini. Ci sono importanti elementi di novità.
Esistono alcuni studi sull’epicheia nella Sacra Scrittura[73]. Mi limito a notare, con D’Agostino, che «non è possibile infatti non nutrire alcuni dubbi sulla concezione ‘regale’ dell’ejpieivkeia come mite clemenza, che Karnack indubbiamente ritiene vada ricavata unicamente dai testi dell’Antico Testamento, ma che troppo simile resta alla concezione tardo-stoica della nostra virtù»[74]. Tutto fa pensare ad un errore di prospettiva più che ad una vera e reale consonanza.
2. Sant’Alberto Magno
L’epicheia entra nella cultura medievale nel 1240-50, con la traduzione latina dell’Etica Nicomachea realizzata da Roberto Grossatesta. Prima era conosciuto soltanto il testo aristotelico dei Topici VI, 3, 141a e anche l’aequitas della tradizione romanistica. Roberto Grossatesta non traduce mai il termine greco ejpieivkeia con quello latino di aequitas, limitandosi a latinizzare il termine greco. L’epicheia entra nel pensiero medievale in modo autonomo rispetto all’equitas romanistica e canonica. In una notula che accompagna la sua traduzione Roberto Grossatesta spiega: «Hoc nomen epieikeiae multas habet significationes. Significat enim studiositatem, id est virtuositatem et decentiam et moderationem et modestiam et amorem cognitionis sui ipsius qualis sit in virtute et prudentium et cognoscentium ipsum iudicium. Et significat virtutem cognoscitivam moderaminis legum, qualiter scilicet leges positae de his quae frequentius et in pluribus contingunt raro ut in paucioribus sed moderandum est earum rigor secundum circunstantias rarius accidentes, cuius rei exempla satis inferius patebunt»[75].
Sulla traduzione latina dell’Etica Nicomachea di Grossatesta ha lavorato S. Alberto Magno, che è stato il primo ad introdurre l’etica aristotelica nella teologia scolastica, operazione questa che ha ricevuto valutazioni molto contrastanti[76]. La riflessione albertina sull’epicheia contiene elementi che non è possibile rinvenire in S. Tommaso d’Aquino; concretamente: una maggiore accentuazione dell’elemento teologico, un più costante riferimento al Vangelo, e una maggiore apertura alle esigenze dell’individuale[77]. S. Alberto fece due commenti all’Etica Nicomachea, il primo in forma di quaestiones e il secondo in forma di parafrasi[78].
Sulla base di un’analisi etimologica[79], S. Alberto spiega che l’epicheia è una superiustitia. Nel secondo commento egli afferma che nell’uso comune l’epicheia è l’applicazione della vis rationis ai casi particolari, accentuando così il riferimento dell’epicheia alla recta ratio. In senso più specifico, l’epicheia attiene alla giustizia legale, operando quando «ex nimia variatione temporum et locorum legalia praecepta ad finem legislatoris servare non possunt: et in his superjustus qui epieikes vocatur elicit quod melius est ad finem legislatoris, praeceptum legis non attendens, sed finem praecepti, animo semper habens commune rationis principium quod est, quod ad finem aliquem institutum est, contra finem illum observari non debet»[80].
Nel primo commento S. Alberto afferma che il compito dell’epicheia è dirigere la giustizia legale. «Iustitia enim legalis regulatur in suis operibus secundum praecepta legis, sed ubi lex deficit in particularibus casibus, quae universaliter promulgata est ad plura respiciens, epieikes quis operatur rectum per seipsum et supplet defectum legis»[81]. Il virtuoso opera così “rectum per seipsum”. Aristotele diceva che l’epicheia mira ad un diritto migliore. S. Alberto interpreta che l’epicheia è migliore della giustizia legale, ma non certo dello «jus naturale, quod secundum naturam rei justum est et ubique eamdem habet potentiam»[82]. S. Alberto ritiene un punto fermo che l’epicheia va ricondotta al diritto naturale, e così si ricollega con la tradizione cristiana (S. Isidoro di Siviglia), distaccandosi probabilmente da Aristotele[83]. S. Alberto precisa il suo pensiero spiegando che si può parlare di un «directivum justi secundum essentiam» e di un «directivum justi secundum esse»[84]. Tale distinzione non risulta essenziale per il nostro lavoro. È importante notare invece che S. Alberto si muove completamente sulla scia aristotelica quando afferma che l’epicheia è una virtù morale dell’uomo in quanto tale, e non del governante o del legislatore.
Può avere qualche interesse esaminare gli esempi presentati da S. Alberto, che egli dichiara di prendere dal commento all’Etica Nicomachea di Michele di Efeso. I tre esempi sono i seguenti: a) «lex praecipit pignus reddendum et epieikes, si esset furiosus, cuius gladium in pignore habet, non redderet»; b) «lex praecipit, ne peregrini ascendant murum civitatis, si tyrannus invadat civitatem; epieikes, etiam, si sit peregrinus, ascendet ad defensionem civitatis et interficiet tyrannum et non punitur, sed premiatur»; c) «lex praecipit non adulterandum, sed epieikes committit adulterium cum uxore tyranni, ut contrahat familiaritatem et possit tyrannum interficere»[85]. I due primi esempi sono diventati classici nella tradizione scolastica e manualistica. Il terzo, invece, è problematico. Lo stesso S. Alberto aggiunge in seguito un sed contra, nel quale citando Rom 3, 8 chiarisce che non può essere fatto il male affinché ne risulti il bene. Poi aggiunge: «de primis duobus exemplis non est dubium, in tertio autem possumus dicere, quod Commentator falsum dicit». E volendo salvare ipoteticamente il “Commentator” («si volumus eum sustinere») distingue che l’azione in parola può essere considerata «inquantum est civilis» e pertanto ordinata «ad bonum civilis», e «inquantum est divinus actus» e come tale ordinata «ad bonum divinum, quod est habere Deum et vitam aeternam». Dal secondo punto di vista l’adulterio non può essere accettato, ma qui il «Commentator loquitur civiliter»[86]. Emerge così la distinzione tra l’ambito civile, nel quale tale adulterio non sarebbe punito (ma il discorso albertino qui è tutt’altro che chiaro!), e l’ambito della legge divina, nel quale esso è inaccettabile. S. Tommaso d’Aquino reagisce in modo perentorio, senza accennare esplicitamente a S. Alberto, ma in riferimento al “Commentator” (Michele di Efeso), che è l’autore dell’esempio: «ille Commentator in hoc non est sustinendus: pro nulla enim utilitate debet aliquis adulterium committere, sicut nec mendacium dicere debet aliquis propter utilitatem aliquam, ut Augustinus dicit»[87].
Assai originale è lo studio dell’epicheia nei commenti di S. Alberto ai Vangeli. Il concetto di epicheia viene assimilato allo spirito anti-farisaico del Signore, e in particolare alla polemica intorno all’osservanza del sabato (Mc 2, 27). Viene sottolineata la mancanza di epicheia dei Farisei: come possono capire l’insegnamento del Signore coloro che «curam [...] habent de minimis ad quaestum pertinentibus et incuriam de maximis ad cultum Dei ordinatis?». Essi possono dirsi «optimi [...] aestimatores rerum qui magnam de minimis et nullam penitus vel parvam de maximis curam gerunt. Cadit asinum et habet sublevantem; perit anima et non est qui recogitet in corde suo»[88]. Vengono anche citati come esempi di epicheia il caso di Mattatia e quello di Davide che mangiò con i suoi compagni i pani dell’offerta.
Secondo Hamel l’introduzione del concetto di epicheia nei commenti biblici vorrebbe significare che per S. Alberto l’epicheia si applica anche alla legge divino-positiva, nel senso che in ogni precetto la nostra volontà si deve adeguare alla volontà divina, ma questo adeguamento deve darsi in fine praecepti et non in re praecepta[89]. È un problema sul quale ci soffermeremo più avanti. Ora si può osservare che il significato dell’uso del concetto di epicheia nei commenti biblici in S. Alberto non è così chiaro[90]. Si potrebbe pensare che S. Alberto intende mostrare Gesù come esempio del superiustus, e allora la sua intenzione sarebbe stata semplicemente quella di illustrare con esempi biblici o evangelici la dottrina aristotelica. Ma si può anche pensare che S. Alberto intende allargare e arricchire la prospettiva meramente aristotelica (riferimento all’intenzione del legislatore), vale a dire, mostrare che nei Vangeli esiste un nuovo aspetto dell’epicheia, non conosciuto da Aristotele, prospettando in questo modo una fondazione teologica dell’epicheia.
In questo senso — osserva D’Agostino — S. Alberto intende mostrare quale deve essere l’atteggiamento dell’uomo nei confronti della legge secondo lo spirito evangelico. La legge di Cristo è divina ed è per l’uomo. «Ciò non significa, come un’affrettata interpretazione potrebbe far credere, che la legge sia a disposizione dell’uomo: le polemiche di Gesù contro il sabato, l’atteggiamento di Davide verso i pani del Tempio non significano altro se non che l’uomo deve comprendere che la volontà di Dio (o, se si vuole, la legge di Dio) è a favore (e non contro) l’uomo [...] Il momento teologico dell’epieikeia viene quindi a coincidere nella prospettiva albertina col momento della libertà cristiana nei rispetti della legge (che non significa — come già si è detto — affrancamento dell’uomo dalla legge); e proprio qui si situa l’originalità dell’apporto speculativo del maestro domenicano»[91].
Il momento della libertà in Aristotele era molto limitato. Nella prospettiva evangelica, invece, l’epicheia aiuta l’uomo a comprendere il vero senso della legge: essa è un aiuto dato da Dio per la salvezza dell’uomo, e possiede un autentico significato di liberazione. Anche se si tratta di riflessioni solo brevemente delineate da S. Alberto, questi avrebbe avuto il merito di aver posto le prime basi di una teologia dell’epicheia. «La novità concettuale dell’epieikeia cristiana si situa sullo stesso piano di novità che è proprio del diritto naturale cristiano: il ‘triangolo ideale’ di teologia, ragione e storia in cui si raccoglie la piena dimensione di questo (e sul quale ha giustamente insistito Ambrosetti) può ottimamente servire a identificare l’ambito di quella, confermandone così il carattere di momento analogico della lex naturae»[92]. Queste considerazioni di D’Agostino affrontano una tematica che assume connotati diversi a seconda che essa venga collocata in una prospettiva teologica generale o in una prospettiva specifica di etica normativa.
3. San Tommaso d’Aquino
S. Tommaso rappresenta uno dei momenti di maggiore perfezione e maturità della filosofia e della teologia medievale. Inoltre egli gode nella Chiesa Cattolica di un’autorità dottrinale del tutto singolare. La bibliografia sulla morale tomista è abbondantissima, e svariati sono i criteri ermeneutici proposti dai diversi autori. Tutto ciò rende doveroso concedere alla dottrina tomista sull’epicheia una maggiore attenzione.
Mi sembra necessario chiarire fin dall’inizio che esiste una certa evoluzione nella morale tomista[93], la quale costituisce nel suo momento di maturità l’espressione classica più compiuta di un’etica cristiana delle virtù. Va tenuto presente, da una parte, quanto è stato detto sopra (si veda sezione II, 2.1) sull’Etica Nicomachea e, dall’altra, che S. Tommaso, assumendo l’impostazione fondamentale di Aristotele, introduce in essa cambiamenti di notevole importanza. Si dovrebbe riflettere inoltre sul significato esatto del fatto che S. Tommaso nella Prima Secundae antepone il trattato delle virtù e dei vizi al trattato sulla legge, e che nella Secunda Secundae espone la morale speciale seguendo lo schema delle virtù, e non lo schema dei comandamenti o dei precetti. Va preso sul serio il fatto che per S. Tommaso le virtù sono le basi delle norme, e che una norma è giustificata quando esprime fedelmente le esigenze positive o negative della virtù, giacché il fine delle norme è quello di aiutare gli uomini a acquisire e praticare le virtù: «Quia praecepta ad hoc sunt ut secundum virtutem operemur et peccata vitemus»[94]. Ciò permette anche di capire che S. Tommaso concepisce la legge come un principio positivo. Il suo atteggiamento non è quello di colui che pensa alla legge come a un inevitabile limite della libertà. La legge è per l’Aquinate un principio di formazione della libertà umana in ordine al raggiungimento di una vita umana e cristiana ben riuscita all’interno di una comunità. La legge è il cammino verso la pienezza della vita cristiana.
3.1 La quaestio 96 della Prima Secundae
Non ci soffermiamo sulle considerazioni dedicate all’epicheia nel giovanile Scriptum super IV libros Sententiarum[95], che non apportano nulla di originale. Il commento tomista all’Etica Nicomachea è stato già studiato (si veda sezione II, 2.2). Ci occupiamo pertanto della Summa Theologiae. I rimandi interni esistenti nei diversi articoli attinenti al nostro tema mostrano che si deve cominciare dall’articolo 6º della quaestio 96 della Prima Secundae: utrum ei qui subditur legi liceat praeter verba legis agere. Va detto subito che la quaestio 96 ha come titolo De potestate legis humanae, e che pertanto quanto detto nell’articolo 6º si riferisce alla legge umana. Il problema dell’epicheia non viene affrontato esplicitamente in questo articolo, ma da un altro punto di vista esso è utile per capire l’atteggiamento di S. Tommaso nei confronti della legge umana.
Nell’articolo 6º va notato:
a) Il principio generale: «omnis lex ordinatur ad communem hominum salutem, et intantum obtinet vim et rationem legis; secundum vero quod ab hoc deficit, virtutem obligandi non habet». Il bene comune (dello Stato o della Chiesa, cioè dei fedeli) è il principio fondamentale che va tenuto presente in tutta la materia. La legge deve strutturare e regolare la vita in comune affinché in essa gli uomini raggiungano la virtù.
b) Viene ricordato subito il ragionamento presente in Aristotele e in S. Alberto sull’imperfezione delle leggi a causa della loro universalità, che qui va riferito alle leggi umane. S. Tommaso ripete più volte che la legge umana è la legge più imperfetta e quindi la legge più perfettibile. Ciò è dovuto al fatto che la partecipazione della ragione umana alla ragione divina è imperfetta[96].
c) «Unde si emergat casus in quo observatio talis legis sit damnosa communi saluti, non est observanda». Viene proposto l’esempio classico delle porte della città, e si conclude: «et ideo in tali casu essent portae aperiendae, contra verba legis, ut servaretur utilitas communis, quam legislator intendit». Vanno sottolineati due aspetti: il primo, già detto, è che il bene comune è il criterio da tener presente. Il secondo è che l’osservanza letterale della legge va abbandonata quando altrimenti si arriva ad una situazione “damnosa communi saluti”, cioè quando l’osservanza letterale della legge sia lesiva del bene comune.
d) «Sed tamen hoc est considerandum, quod si observatio legis secundum verba non habet subitum periculum, cui oportet statim occurri, non pertinet ad quemlibet ut interpretetur quid sit utile civitati et quid inutile: sed hoc solum pertinet ad principes, qui propter huiusmodi casus habent auctoritatem in legibus dispensandi. Si vero sit subitum periculum, non patiens tantam moram ut ad superiorem recurri possit, ipsa necessitas dispensationem habet annexam: quia necessitas non subditur legi». Questo testo rappresenta certamente una novità. Non c’è dubbio che in esso sono presenti considerazioni provenienti dalla tradizione giuridica e canonica medievale, nonché cautele consigliate dalla sensibilità pastorale. Si nota, d’altra parte, che qui l’Aquinate non vuole prendere in considerazione la problematica propria dell’epicheia, e preferisce restare nella prospettiva giuridica. Ma c’è anche un problema vivamente sentito dalla sensibilità giuridica e politica contemporanea, che acquistò un’espressione celebre nell’opera di Hobbes[97]. Se ciascuno si sente autorizzato a valutare le disposizioni legali alla luce della propria idea del bene comune, si arriva non solo all’arbitrarietà, ma alla dissoluzione dell’intero sistema legale, sia civile sia ecclesiastico. Il giudizio con il quale ogni cittadino potrebbe eventualmente richiamarsi al diritto naturale o ad altri principi superiori minaccerebbe, come la spada di Damocle, ogni legge, e il vivere insieme diventerebbe poco meno che impossibile, e pertanto si avrebbe un danno gravissimo del bene comune. L’ultimo testo riportato significa, a mio avviso, che a S. Tommaso non sfugge questo grave problema.
e) Notiamo inoltre che la prospettiva propria del trattato delle leggi non facilita la distinzione tra epicheia e dispensa. Ma nella risposta alla seconda obiezione la distinzione viene sfiorata: «ille qui sequitur intentionem legislatoris, non interpretatur legem simpliciter; sed in casu in quo manifestum est per evidentiam nocumenti, legislatorem aliud intendisse. Si enim dubium sit, debet vel secundum verba legis agere, vel superiores consulere». L’interpretazione ha luogo quando il testo legale non è chiaro e pone dei dubbi, che devono essere chiariti dall’autorità. Il richiamo all’intenzione del legislatore (epicheia) non è dovuto al fatto che la legge sia oscura, ma al presentarsi di un caso concreto nel quale essa —che in sé è chiara — non può essere osservata senza danno del fine al quale sono ordinate tutte le leggi, vale a dire, il bene comune.
Possiamo ora passare allo studio dei testi dedicati esplicitamente all’epicheia.
3.2 La quaestio 120 della Secunda Secundae
La quaestio 120 della Secunda Secundae, “De Epieikeia”, appartiene al trattato sulla giustizia. È divisa in due articoli: “utrum epieikeia sit virtus” (a. 1) e “utrum epieikeia sit pars iustitia” (a. 2).
Cominciamo dall’articolo primo:
a) All’inizio c’è un riferimento alla I-II, q. 96, a. 6. Ciò sembra indicare che S. Tommaso intende muoversi nell’ambito della giustizia umana, e quindi delle leggi umane. Ciò è confermato dal riferimento ai “legislatores”.
b) Viene riportata la spiegazione classica sull’imperfezione delle leggi umane. Gli atti umani «infinitis modis variari possint», e così «non fuit possibile aliquam regulam legis institui quae in nullo casu deficeret: sed legislatores attendunt ad id quod in pluribus accidit, secundum hoc legem ferentes».
c) Perciò è possibile che osservare la legge in qualche caso «est contra aequalitatem iustitiae, et contra bonum commune, quod lex intendit». Viene considerato l’esempio classico del deposito, e poi aggiunge: «In his ergo et similibus casibus malum esset sequi legem positam: bonum autem est, praetermissis verbis legis, sequi id quod poscit iustitiae ratio et communis utilitas. Et ad hoc ordinatur epieikeia, quae apud nos dicitur aequitas. Unde patet quod epieikeia est virtus».
È da rilevare che l’epicheia viene considerata come una virtù etica, propria dell’uomo in quanto tale. I criteri per i quali essa si regola sono esplicitati: la ratio iustitiae e la communis utilitas. L’epicheia è virtù perché principio di un’opera buona e necessaria: nei casi in cui essa opera «malum esset sequi legem positam». Da notare infine che anche se viene detto che l’epicheia «apud nos dicitur aequitas», S. Tommaso né qui né altrove impiega il termine latino, ma latinizza quello greco.
Nelle risposte alle obiezioni vengono chiariti altri punti. Nell’Ad primum afferma S. Tommaso «quod epieikes non deserit iustum simpliciter, sed iustum quod est lege determinatum. Nec etiam opponitur severitati, quae sequitur veritatem legis in quibus oportet: sequi autem verba legis in quibus non oportet, vitiosum est». L’epicheia non è un generalizzato atteggiamento di benevolenza, cioè non consiste nel “chiudere un occhio”. Essa evita un’osservanza letterale della legge quando osservare letteralmente la legge “vitiosum est”.
Nell’Ad secundum c’è un chiarimento importante. Contro l’obiezione di chi considera che l’epicheia giudica la legge, e pertanto è un vizio, S. Tommaso afferma «quod ille de lege iudicat qui dicit eam non esse bene positam. Qui vero dicit verba legis non esse in hoc casu servanda, non iudicat de lege, sed de aliquo particolari negotio quod occurrit».
Nell’Ad tertium l’epicheia viene distinta dall’interpretazione. «Interpretatio locum habet in dubiis, in quibus non licet, absque determinatione principis, a verbis legis recedere. Sed in manifestis non est opus interpretatione, sed executione».
Passiamo ora all’articolo secondo.
a) L’Aquinate spiega in primo luogo che in riferimento alle virtù si distinguono le parti integrali, soggettive e potenziali. «Pars autem subiectivam est de qua essentialiter praedicatur totum, et est in minus. Quod quidem contingit dupliciter: quandoque enim aliquid praedicatur de pluribus secundum unam rationem, sicut animal de equo et bove; quandoque autem praedicatur secundum prius et posterius, sicut ens praedicatur de substantia et accidente».
b) «Epieikeia ergo est pars iustitiae communiter dictae, tanquam iustitia quaedam existens: ut Philosophus dicit, in V Ethic. Unde patet quod epieikeia est pars subiectiva iustitiae. Et de ea iustitia per prius dicitur quam de legali: nam legalis iustitia dirigitur secundum epieikeiam. Unde epieikeiam est quasi regula superior humanorum actuum». L’epicheia è un tipo di giustizia, la giustizia si predica di essa per prius e della giustizia legale per posterius, perché l’epicheia dirige la giustizia legale. L’ultima frase («quasi regula superior humanorum actuum») è stata sfruttata di recente in senso polemico contro alcuni insegnamenti del Magistero della Chiesa. Su di essa ci soffermeremo tra poco, a proposito del commento del Gaetano. Per ora finiamo la prima lettura di questo articolo.
c) Nell’Ad primum viene notevolmente chiarito il rapporto tra l’epicheia e la giustizia legale. «Epieikeia correspondet proprie iustitiae legali: et quodammodo continetur sub ea, et quodammodo excedit eam. Si enim iustitia legalis dicatur quae obtemperat legi sive quantum ad verba legis sive quantum ad intentionem legislatoris, quae potior est, sic epieikeia est pars potior legalis iustitiae. Si vero iustitia legalis dicatur solum quae obtemperat legi secundum verba legis, sic epieikeia non est pars legalis iustitiae, sed est pars iustitiae communiter dictae, contra iustitiam legalem divisa sicut excedens ipsam».
Conviene tener presente che la connessione tra epicheia e giustizia legale non significa che la virtù dell’epicheia sia principio di atti buoni e eccellenti solo in materia di giustizia. S. Tommaso concepisce la giustizia legale come una virtù generale che riferisce al bene comune gli atti di tutte le altre virtù: «actus omnium virtutum possunt ad iustitiam pertinere secundum quod ordinat hominem ad bonum commune. Et quantum ad hoc iustitia dicitur virtus generalis. Et quia ad legem pertinet ordinare in bonum commune [...] dicitur iustitia legalis; quia scilicet per eam homo concordat legi ordinanti actus omnium virtutum in bonum commune»[98].
Possiamo ora procedere ad un primo chiarimento della formula «epieikeia est quasi superior regula humanorum actuum». A questo scopo è necessario esaminare l’articolo 3º della quaestio 51 della Secunda Secundae. L’epicheia è un abito operativo della volontà, e come tutti gli abiti morali ha la sua regola nella prudenza. Le parti potenziali della prudenza sono la eubulia, la synesis e la gnome. Le ultime due sono le virtù del retto giudizio, mentre la prima è la virtù della retta deliberazione. La synesis è la virtù che permette di giudicare rettamente secondo le regole comunemente utilizzate. Ma talvolta ciò non è possibile, e allora «oportet de huiusmodi iudicare secundum aliqua altiora principia quam sint regulas communes, secundum quas iudicat synesis. Et secundum illa altiora principia exigitur altior virtus iudicativa, quae vocatur gnome, quae importat quandam perspicacitatem iudicii». La gnome è quindi la parte della prudenza che regola la virtù dell’epicheia, determinando l’atto da compiere in casi eccezionali mediante la considerazione non del principio comune (la legge), ma dei principi più alti, che sono il bene comune e la stessa ratio iustitiae. L’epicheia è “superior regula” in quanto per giudicare casi speciali si richiama direttamente ai principi di più alto livello, ma sempre nell’ambito dell’unità della ragione pratica e della ratio boni.
3.3 Il Commento del Cardinale Gaetano
L’autorevolezza del commento del Cardinale Gaetano alla Summa Theologiae è da tutti riconosciuta, perciò è stato pubblicato nell’edizione leonina della Summa tomista[99]. A tale commento farà riferimento spesso Francisco Suárez. È da tener presente tuttavia che tra S. Tommaso e il Gaetano la teologia scolastica ha vissuto la complicata vicenda del nominalismo e, in morale, del volontarismo del XIV secolo. Ciò ha lasciato delle tracce, anche come reazione polemica, nell’opera del Gaetano. Ci serviremo comunque del suo commento alla quaestio 120 della Secunda Secundae per discutere e riassumere la posizione tomista.
Il Gaetano propone una definizione sintetica dell’epicheia. Essa è «directio legis ubi deficit propter universale». Nella spiegazione della definizione sono da rilevare i seguenti elementi:
a) L’epicheia è virtù, e pertanto «consistit actus eius in hoc quod est rectificare et rectum facere opus». In questo senso si parla di “directio”. L’epicheia non è una benevola condiscendenza, ma il principio di un’azione virtuosa, e quindi eccellente.
b) Un elemento di novità sembra esserci nella spiegazione del termine legis. «Dicitur, legis, tam positivae quam naturalis: universalis tamen, et defectivae in aliquibus». Diciamo subito che la novità sta nel fatto che venga posto il problema dell’epicheia in riferimento alla legge morale naturale, cosa che S. Tommaso non fa. Dopo lo studio della tradizione volontarista (si tenga presente che Gaetano nasce nel 1468 e muore nel 1534) si capirà meglio perché il Gaetano tocca la questione della legge naturale. Comunque, è un fatto che a partire dal Gaetano il problema del rapporto tra l’epicheia e la legge naturale diventa una questione scolastica che sarà toccata da tutti, e perciò sembra importante capire bene che cosa intende qui il Gaetano per legge naturale. «Scire oportet quod lex positiva continet duo genera statutorum». Si parte quindi dalla legge positiva, la quale contiene in realtà due ordini di precetti: alcuni che sono meramente positivi e altri che appartengono in realtà allo «ius naturae seu gentium, quae lex positiva magis monstrat quam statuat». Il Gaetano, giustamente, non considera il diritto naturale come una specie di codice a parte, contrapposto al codice civile o penale, ma vede che la legge positiva esprime in molti casi elementi del diritto naturale, come succede per esempio con la legge politica che vieta l’omicidio.
Gli elementi di diritto naturale contenuti nella legge positiva sono di due tipi. «Nam quaedam sic sunt universaliter vera ut in nullo casu deficiant: ut non esse mentiendum, non esse adulterium perpetrandum, et huiusmodi. Et in istis, quia deficere nequeunt, nullum locum habet aequitas. Quaedam vero sunt quae ut in pluribus rectitudinem continent, in aliquo tamen casu a rectitudine declinarent si servarentur. Ut, deposita reddenda esse rectum est ut in pluribus: quia tamen quandoque, si redderetur depositum, esset iniquum, oportuit aliquod aliud directivum inveniri horum operum in quibus lex naturalis depositorum deficit. Et hoc directivum vocatur virtus aequitatis». È chiaro che il Gaetano intende per legge naturale la morale naturale, diversa della legge divino-positiva e, più concretamente, quando afferma che l’epicheia ha per oggetto anche la legge naturale, intende riferirsi alle leggi positive che esprimono, mediante formule linguistiche umane, conseguenze derivate dalle virtù, ma non le loro esigenze essenziali o gli atti che le contraddicono (atti intrinsecamente cattivi). Nel senso in cui parla Gaetano della legge naturale (come morale naturale), è evidente, anzi quasi banale, che l’epicheia si applica nell’ambito della legge naturale. Ma ciò non è vero —come esplicitamente ha chiarito sopra il Gaetano —, se per legge naturale intendiamo gli atti intrinsecamente cattivi, cioè gli atti che in virtù della loro identità essenziale sono contrari alla retta ragione. Siamo, in definitiva, in una linea di ragionamento simile a quella impiegata da S. Tommaso quando si domanda se i precetti del Decalogo sono soggetti a dispensa[100]. Se guardiamo la sostanza, l’affermazione del Gaetano riguardante la legge naturale non si discosta dal pensiero tomista.
c) Viene chiarito in seguito che l’epicheia è diversa dalla dispensa e dall’interpretazione della legge. Nella dispensa «non deficit tunc lex propterea quia erat universalis, sed quia legislator derogavit legi quoad hos privilegiatos. Et simile est si ex quacumque alia causa lex deficiat: nunquam enim spectat directio ad aequitatem nisi deficiat propter universale». L’interpretazione della legge è necessaria quando essa è oscura o ambigua, e spetta all’autorità o al legislatore. Il Gaetano fa un’avvertenza importante, anche per le circostanze attuali, in riferimento all’Ad secundum di S. Tommaso: «Et hoc bene notent sapientes in oculis suis qui etiam quae iuris sunt divini interpretari praesumunt in casu non esse intelligenda, et dicunt se uti epieikeia. Non enim aequitatis est interpretari an in hoc casu servanda sit lex: sed, ubi manifeste lex deficit propter universale, dirigere». L’epicheia permette di compiere un atto virtuoso e eccellente laddove, per la infinità varietà delle circostanze umane, si viene a creare una situazione che manifestamente non rientra nella legge. Ma sarebbe presunzione pensare che l’epicheia permette che i sapientes oculis suis decidano se la legge divina deve essere osservata o meno in questo caso concreto. Anche su questo punto, che sarà ripreso dalla manualistica, il pensiero del Gaetano è inequivoco.
d) Il Gaetano offre un’altra spiegazione importante. «Diligentissime quoque notandum est quod non de quocumque defectu legis propter universale est sermo in hac definitione Aristotelis, sed de defectu obliquitatis. Dupliciter namque contingit deficere legem propter universale: scilicet negative, vel contrarie. Deficit siquidem lex propter universale negative tantum, quando accidit casus in quo cessat ratio legis, ac per hoc videtur quod lex in illo casu non obliget, si tamen servetur lex, nihil mali, nihil inordinati committitur». Vengono proposti diversi esempi, tra cui il rispetto osservato dal Signore della legge della circoncisione, alla quale in realtà non era obbligato. «Contrarie autem deficit lex propter universale, quando evenit casus in quo non solum cessat ratio legis, sed inique ageretur servando legem: ut patet in lege de reddendis depositis, si redderentur poscenti ad impugnandum patriam; et de lege non ascendendi moenia civitatis, si non ascendendo permitteret civitatem capi; et aliis huiusmodi, in quibus servare legem esset a recto deviare». Gli esempi utilizzati mostrano che qui il Gaetano esprime la posizione non solo di S. Tommaso, ma anche quella di S. Alberto e dei commentatori greci di Aristotele, dai quali procedono gli esempi.
Il Gaetano ritiene pertanto che «adimplenda est ergo lex universalis etiam si ratio legis cessat in casu aliquo, dummodo ad obliqua non ducat in casu aliquo». Vale a dire, l’epicheia comanda di andare oltre la lettera della legge quando l’osservanza letterale del precetto dia luogo a un comportamento o a una situazione positivamente ingiusta o cattiva. Questa tesi viene giustificata con tre ragioni. Una di esse è l’autorità di Pietro Lombardo. Un’altra è fondata su Aristotele: l’oggetto della virtù dell’epicheia sono quelle azioni che senza la direzione dell’epicheia non sarebbero rette, perché solo in quei casi la giustizia legale ha bisogno di un’ulteriore virtù direttiva.
C’è un’ultima ragione, che tocca un punto di vitale importanza e attualità, che il Gaetano ha il merito di intravedere con qualche secolo di anticipo, ma che mi sembra egli non riesce a risolvere bene. Sinteticamente: «Secundo probatur, ducendo ad inconveniens. Nam si ad aequitatem spectaret dirigere ea in quibus lex pure negative deficit propter universale, sequeretur et quod simplex fornicatio quandoque esset aequa, et quod multa alia crimina quandoque essent iusta et sancta». Detto questo spiega che ci possono essere dei casi in cui le ragioni per le quali S. Tommaso afferma, nel libro III della Summa contra Gentiles, che la fornicazione è moralmente illecita non sussistano affatto, ma la fornicazione — aggiunge il Gaetano — non può essere mai lecita. Il punto è estremamente delicato. Da una parte, il ragionamento tomista della Summa contra Gentiles non tiene conto degli aspetti personalistici dei peccati contro la castità. Poi il Gaetano non riesce a liberarsi di una concezione funzionalistica (che mira al fine come risultato) della legge morale, che trascura la comprensione di due aspetti importanti: il ruolo del bene comune come principio di ogni legge e, soprattutto, il fatto che la virtù è innanzitutto un principio del ragionamento pratico, ragione per la quale la norma morale è una cosa molto diversa, per esempio, dalle leggi della circolazione stradale. La fornicazione infrange un’esigenza intrinseca e ineliminabile della recta ratio, che ha come principio proprio la virtù della temperanza, mentre passare con il semaforo in rosso è un’esigenza valida solo in circostanze normali. Quando la visibilità a lungo raggio è perfetta e non c’è nessuno (Roma, domenica di agosto alle 3 del pomeriggio), passare col rosso non è contrario alla recta ratio. Queste considerazioni diventano attuali dal momento che per il proporzionalismo tutte le norme morali concrete andrebbero concepite alla stregua delle leggi della circolazione stradale, come si è visto nelle discussioni sulla Veritatis splendor[101].
Del Commento del Gaetano all’articolo 2º della quaestio 120 rileviamo soltanto un punto. Il Gaetano vede che l’affermazione tomista secondo la quale l’epicheia «est quasi superior regula humanorum actuum» può suscitare qualche problema, «quia regula humanorum actuum ut in pluribus non est inferior regula eorundem ut in paucioribus. Aequitas autem est regula in paucioribus: iustitia legalis ut in pluribus. Ergo». Il Gaetano nota che la “regula” sta dalla parte della conoscenza direttiva, e perciò è necessario richiamarsi alla distinzione tra synesis e gnome, da noi già studiata. La gnome mira a principi più alti, che come fini estrinseci sono superiori ai principi intrinseci e immediati della legge. Così la legge che vieta che i pellegrini salgano sulle mura della città ha come fine intrinseco la salvezza della città dalle minacce che provengono dai pellegrini. Nell’ipotesi considerata nell’esempio classico, il principio a cui mira l’epicheia è più alto, perché riguarda la salvezza della città in assoluto, la salvezza da qualsiasi minaccia. A questo principio più alto è ordinato, come a fine estrinseco, il fine immediato della legge che vieta ai pellegrini di salire sulle le mura. Non c’è alcuna contrapposizione: il principio più alto, nei casi normali, impone di rispettare la legge ordinata al fine di livello inferiore. Solo nei casi in cui questo si oppone a quello, l’azione ha bisogno della direzione dell’epicheia.
Più avanti ci soffermeremo sui diversi modi in cui è stato apprezzato e valutato il concetto tomista di epicheia dagli studiosi a noi contemporanei. Per ora possiamo limitarci ad un’osservazione che ci sembra importante. Il pensiero morale di S. Tommaso è basato certamente sull’idea di ordine, ma di un ordine che richiede la presenza attiva dell’uomo come suo vigile custode. Attraverso la virtù dell’epicheia «l’uomo coopera al mantenimento di quest’ordine — per ciò che è ordine umano — nelle sue finalità proprie, quindi nella sua razionalità, quindi nel suo essere rivolto a Dio. La libertà che dona l’epieikeia è quella stessa libertà che si identifica paradossalmente con l’ubbidienza più piena —anche se ‘piena’ non significa necessariamente ‘letterale’ —, la libertà di seguire la “prima regula, qua regulantur omnes rationales voluntates”, cioè la stessa divina voluntas (cfr. Summa Theologiae, II-II, q. 104, a. 1, ad 2), quella che costituisce l’uomo “secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum arbitrium habens et suorum operum potestatem” (Summa Theologiae, I-II, prol.)»[102].
4. La tradizione volontarista
A partire dal secolo XIV si afferma progressivamente nelle grandi università europee l’orientamento volontarista. L’evento è legato a condizioni storiche, culturali, teologiche e religiose di notevole complessità. Non è da sottovalutare l’importanza delle due condanne delle tesi dell’averroismo latino — alcune delle quali erano attribuite a S. Tommaso — irrogate dall’allora Arcivescovo di Parigi Stefano Tempier. Il tema meriterebbe maggiore spazio. Va tenuto presente quanto Gilson scrisse nella sua monumentale opera sul Beato Giovanni Duns Scoto: di cento studiosi che hanno cercato di mettere in ridicolo Scoto, neanche due lo hanno letto e neppure uno lo ha veramente capito[103].
Senza avventurarci in giudizi affrettati, si può dire con certezza che nella tradizione volontarista[104] nasce un nuovo modo di esporre scientificamente la morale cattolica[105]. In esso acquista particolare rilievo la figura del legislatore, che con la sua volontà stabilisce precetti e impone dei fini. In autori come Egidio Romano o Marsilio da Padova l’epicheia appare nuovamente collocata in un contesto politico, come virtù del supremo reggitore, dove «sembra da una parte identificarsi con la clemenza — secondo quella che fin dall’antichità era una delle sue molteplici anime —, ma dall’altra [sembra] trascurare l’attenta fenomenologia della giustizia legale nel suo impatto con il concreto che costituisce indubbiamente l’aspetto più tipico della virtù nel senso aristotelico-tomistico»[106]. Nel Beato Giovanni Duns Scoto l’epicheia sembra essere riassorbita nella categoria più ampia della dispensa, cioè della cessazione della volontà di obbligare[107].
Si considera comunemente che il legislatore legisla secondo la volontà di Dio. Ma si concede allo stesso tempo che su alcune materie il legislatore umano gode di piena discrezionalità. In queste materie l’epicheia assume un volto nuovo, come titolo secondo il quale il suddito rivendica contro il legislatore il suo diritto di non ottemperare alle ingiunzioni legali. Dalla superiustitia di S. Alberto si passa ad una concezione dura dell’epicheia. Essa non è più la possibilità che ha l’uomo di far appello al reale (alla ratio iustitiae e alla communis utilitas), bensì «la bandiera della liberazione del soggetto da precetti che gli vengono ingiustificatamente imposti»[108]. Emerge allora un grande problema, che S. Tommaso non si era posto esplicitamente: quello di determinare quali leggi siano assoggettabili all’epicheia. Ciò permette di capire perché invece il problema viene posto dal Gaetano. Sembra che l’epicheia sia uno strumento che vada automaticamente rapportato alle singole leggi per verificarne l’immutabilità. L’epicheia viene vista allora come una mitigatio juris, come una riappropriazione da parte del suddito di un potere primigeniamente a lui spettante e mal gestito dal capo della comunità.
Questo non implica un atteggiamento negativo nei confronti della legge. Viene piuttosto concesso un valore assoluto alla legge, ma solo nei limiti in cui essa è posta dal legislatore. Ugualmente viene concesso un grande valore alla dispensa, senza soffermarsi più di tanto nell’individuare la ratio che la rende necessaria o conveniente. In questo modo l’epicheia, nel senso aristotelico e tomista, tende a scomparire, perché viene sostituita dall’interpretazione della legge e dalla dispensa espressa o tacita. «Quando la giustizia non consiste più nella conformità ad un ordine ontologico, non ha più senso parlare di emergenza del caso concreto, nel caso in cui la norma non realizzi più quell’ordine, e di uso dell’epieikeia. L’unica giustizia è l’adeguazione alla volontà del legislatore, espressa nella norma o, in determinati casi, nella dispensa dall’osservanza di una norma»[109]. Questo giudizio di D’Agostino potrebbe essere arricchito con alcune sfumature, ma sembra indubbio che nel contesto volontarista il potere di dispensare acquista una discrezionalità e un’ampiezza che non sarebbe pensabile nel quadro del tomismo.
L’epicheia acquista una valenza fortemente polemica nel pensiero di Guglielmo di Ockham, avversario del potere pontificio e sostenitore della causa imperiale. Ockham afferma la liceità dell’intervento dell’autorità politica nel caso di eresia papale. Si pone l’obiezione che i sacri canoni vietano che un chierico sia sottoposto all’autorità civile. Questi canoni —risponde Ockham — «exponendi sunt per epikeyam, quae est virtus et aequitas qua discernitur in quo casu leges sunt servandae et in quo non»[110]. Secondo Ockham e Marsilio da Padova, in virtù dell’epicheia Ludovico il Bavaro avrebbe legittimamente annullato il suo matrimonio con Margherita Maultasch prima che la corte pontificia si fosse pronunciata, giacché il non annullamento del matrimonio sarebbe stato nocivo per il bene comune dell’Impero[111]. Per Ockham l’epicheia assolve una funzione ben precisa: permettere di infrangere la lettera dei canoni[112]. Manca ogni accenno di confronto comparativo tra i due beni, quello che la legge persegue e quello che emerge dal caso concreto. L’unico bene è quest’ultimo. Manca ugualmente la ricerca dell’intenzione del legislatore. Il bene che l’epicheia dovrebbe garantire resta sempre indeterminato.
Per la vis polemica di Ockham, funzione principale dell’epicheia è liberare il soggetto dall’osservanza della legge. E il motivo fondamentale è che per Ockham «compito dell’equità non è più la ricerca della giustizia, la volontà da parte del soggetto di farsi giusto (il che giustificherebbe la qualifica dell’equità come virtù), ma il discernimento dei casi in cui “leges sunt servandae” o meno. Non più dunque, come per S. Tommaso, come applicare la legge, ma se applicarla o no. L’equità non più dunque come valore morale, ma al più come valore politico»[113]. Ciò diventa palese nel Defensor Pacis di Marsilio da Padova e nei dibattiti sul conciliarismo, in cui intervengono, tra gli altri, Conrad von Gelnhausen, Enrico di Assia, Pierre d’Ailly, Gerson e Nicola Cusano, autori sui quali non possiamo soffermarci. Bastino le precedenti considerazioni per esemplificare quello che potremmo denominare l’uso polemico del concetto di epicheia. Bisognerà aspettare la seconda scolastica per ritornare al concetto classico di epicheia. La Summa di Antonino da Firenze è probabilmente la prima reazione in questo senso.
5. Francisco Suárez
Francisco Suárez (1548-1617) è uno dei più importanti rappresentanti della seconda scolastica. Nella sua monumentale opera De Legibus ac Deo Legislatore (1612) dedica un grande spazio all’epicheia. Suárez si inserisce nella grande tradizione scolastica con un pensiero morale che possiede tuttavia tratti originali che conviene spiegare brevemente[114].
Per S. Tommaso la legge è un’ordinatio rationis ad bonum commune. La legge è fondamentalmente opera della ragione, e in virtù della sua razionalità mirante al bene comune obbliga le coscienze. Il bene comune è sempre l’oggetto dell’intenzione del legislatore. Suárez concede un ruolo maggiore alla volontà e alla persona del legislatore concreto. Per Suárez è importante agire ad mentem legislatoris, il quale intende vincolare la coscienza del suddito in un certo modo e fino a un certo punto. Accanto all’idea di obbligazione, Suárez manifesta un grande interesse nel salvaguardare la libertà del soggetto. La preoccupazione di Suárez non è tanto quella di sapere quando la legge deve essere corretta per raggiungere la vera giustizia, ma quella di sapere quando il suddito può considerarsi legittimamente scusato dall’osservanza della legge[115]. È a questo scopo che serve conoscere esattamente la mens legislatoris[116].
Oltre a queste caratteristiche, messe in rilievo da Hamel, è da notare un’altra cosa. Per Suárez il giudizio della recta ratio è indicativo di un ordine naturale che Dio impone come legge, e quindi la recta ratio manifesta o permette di conoscere la legge naturale e la legge eterna. Per S. Tommaso il giudizio della recta ratio è esso stesso una vera e propria legge morale, la legge naturale, perché tale giudizio costituisce la partecipazione dell’uomo alla legge eterna. Per S. Tommaso la recta ratio è una partecipazione all’Intelligenza divina; per Suárez, la recta ratio permette di conoscere il decreto della volontà di Dio. Come conseguenza, per S. Tommaso la recta ratio possiede una vera competenza morale, che l’enciclica Veritatis Splendor chiama “teonomia partecipata”[117]; per Suárez la ragione stabilisce, procedendo speculativamente, la conformità di certi comportamenti con la natura umana, e tale conoscenza è legge in quanto permette di conoscere la volontà di Dio. S. Tommaso e Suárez hanno un’idea diversa della ragione morale. Mi sembra che per Suárez la ragione morale non è quello che oggi chiamiamo in senso rigoroso ragione pratica.
5.1 Il libro II del De Legibus
Il capitolo 16 del libro II del De Legibus è dedicato al seguente problema: utrum circa legem naturalem habeat locum epiikia vel interpretatio sive a Deo sive ab homine facta[118]. Anticipiamo che Suárez darà una risposta negativa. La legge naturale non ammette correzione attraverso l’epicheia. Ma esaminiamo la sua risposta.
Ci sono tre opinioni. Secondo la prima, la legge naturale ammette l’epicheia, ma essa spetta solo a Dio. La seconda opinione afferma che anche il Papa o qualche altra alta autorità potrebbe correggere la legge naturale attraverso l’epicheia. Secondo la terza opinione la legge morale naturale non ammette epicheia. Suárez ritiene che solo la terza opinione è vera.
Nell’esposizione di questa terza opinione, Suárez comincia distinguendo l’epicheia dall’interpretazione della legge: «Multo enim latius patet interpretatio legis quam epiikia. Comparantur enim tanquam superius et inferius. Omnis enim epiikia est legis interpretatio; non vero e converso omnis interpretatio legis est epiikia»[119]. La distinzione viene spiegata seguendo il commento del Gaetano. L’interpretazione intende spiegare una legge che è oscura nei sui termini. L’epicheia invece corregge la legge «in casu in quo esset error practicus illam servare et contra iustitiam et aequitatem naturalem»[120]. La correzione mediante l’epicheia è necessaria per non incorrere in errore o in palese ingiustizia.
Viene riproposta in seguito la distinzione del Gaetano, già studiata da noi (si veda III, 3.3): «sic ergo lex naturalis spectari potest vel secundum se, prout recta ratione concipitur vel dictatur; vel prout exprimitur aliquibus certis verbis per aliquam legem scriptam»[121]. In entrambi i casi la legge naturale ha bisogno, per gli uomini, di chiarimenti e interpretazioni che spieghino il vero senso: «ad intelligendum verum sensum naturalis praecepti, necesse est inquirere conditiones et circumstantias cum quibus actus ille secundum se malus est vel bonus; et haec vocatur interpretatio praecepti naturalis quoad verum sensum eius»[122]. Suárez adduce l’esempio dell’omicidio. È necessario chiarire, per esempio, che la legittima difesa non rientra nella proibizione naturale dell’omicidio.
Invece nessun precetto naturale considerato in se stesso ammette epicheia propriamente detta. Ciò viene dimostrato prima attraverso certi esempi, poi con argomentazioni razionali e infine in modo induttivo. Per quanto riguarda gli esempi, basti considerare il primo:
«Unum est de lege reddendi depositum, quo utitur Caietanus; quia in illo interpretamur non obligare in casu in quo esset contra iustitiam vel charitatem depositum reddere. Haec autem interpretatio non est epiikia in ipso praecepto naturali secundum se spectato. Nam illud praeceptum, ut sic, est in recta ratione; et recta ratio non absolute dictat depositum esse reddendum, sed subintellectis conditionibus quas ratio iustitiae et charitatis requirit; et ita illa interpretatio quae tunc fit, non est propter universale (ut Caietanus loquitur), sed est declaratio verae universalitatis ipsius legis, prout in se lata est, id est, prout in recta ratione continetur. Non est ergo epiikia»[123].
Le due argomentazioni razionali presentate da Suárez a sostegno della sua tesi sono imperniate sul concetto di recta ratio: «lex naturalis emendari non potest, cum posita sit in recta ratione, quae a vero deficere non potest. Nam si deficit, iam non est recta ratio»[124]. Detto questo, Suárez aggiunge:
a) «Iustum autem naturale, cum oriatur ex intrinseca (ut sic dicam) conformitate et consonantia extremorum, deficere non potest nisi aliquod ex extremis mutetur; et tunc iam mutatur materia legis et non est idem medium virtutis, et consequenter neque idem iustum; et ita licet cesset obligatio legis, non est propter epiikiam sed propter mutationem materiae»
b) «Dictamen rectae rationis secundum se spectatum et ut practice verum non fertur in universale, prout potest deficere, sed prout his circumstantiis affectum, cum quibus nunquam deficit»[125].
Per fondare induttivamente che la legge morale naturale non ammette la correzione dell’epicheia, Suárez ricorda la distinzione tra precetti positivi e precetti negativi. I precetti positivi sono di natura tale «ut semper obligent, non tamen pro semper». Siccome questi precetti obbligano semper, non sono oggetto di interpretazione né cambiamento alcuno. Ma siccome non obbligano pro semper, il momento in cui obbligano può essere determinato da una legge positiva, e allora possono essere oggetto di interpretazione, di epicheia e di dispensa[126]; oppure il momento in cui obbligano è determinato dalla ratio naturalis, e in tale caso «nulla est epiikia, quia nulla est exceptio a lege, nec emendatio praecepti, sed simplex intelligentia illius»[127]. I precetti negativi, invece, sono di natura tale «ut semper et pro semper obligent, vitando mala quia mala sunt»[128]. Questi precetti (quelli cioè che riguardano gli atti intrinsecamente cattivi) non possono essere corretti dall’epicheia in alcun modo, «quia impossibile est id quod est per se et intrinsece malum, fieri bonum aut non malum, manente eodem obiecto et circumstantiis; et ideo dicimus non posse hoc fieri per dispensationem. Ergo multo minus fieri potest per epiikiam»[129]. Quello che può capitare è che cambi l’oggetto oppure le circostanze intrinseche, e allora si tratta di un atto morale diverso: «Quod si mutatio fiat in obiecto vel circumstantiis intrinsecis, et ratione eius mutationis actus desinat esse malus, iam illa non est epiikia, quia non versatur circa materiam sub tali lege naturali comprehensam, sed est cognitio seu interpretatio materiae legis et finium eius»[130]. Vengono proposti l’esempio del furto in caso di estrema necessità e quello del deposito. Segue la inequivocabile conclusione in senso negativo: «Ita ergo in praeceptis negativis naturalibus intelligi non potest propria epiikia»[131].
Suárez considera alcune possibili obiezioni. Riportiamo soltanto gli esempi riguardanti il matrimonio. Sembrerebbe che certi precetti naturali possono essere corretti mediante l’epicheia. «Huiusmodi est praeceptum prohibens matrimonium cum sorore, quod in casu extremae necessitatis non obligat propter conservationem speciei. Idem est de praecepto non contrahendi cum secunda, vivente prima, maxime si primum matrimonium fuit consummatum. Nam in eadem necessitate generis humani, si prima esset sterilis, liceret accipere secundam; et in praeceptis pertinentibus ad impedimenta quae iure naturae irritant matrimonium, invenientur multa similia»[132]. È chiaro che Suárez considera ipotesi eccezionali su un piano puramente speculativo, e sempre in funzione del bene del genere umano. Oggi noi potremmo formulare, per esempio, le seguenti situazioni: dopo una guerra nucleare, restano sul pianeta terra un solo uomo e sua sorella, oppure un uomo, sua moglie sterile, e un’altra donna fertile. La risposta di Suárez a queste obiezioni è la seguente: «Nunc autem, supponendo illa esse vere praecepta naturalia, respondetur per illa non prohiberi simpliciter matrimonium, v. g. inter fratres vel cum secunda, sed prohiberi tali matrimonium quatenus noxium humanae naturae, et ita contrarium naturali honestati secundum rectam rationem. In casu vero illius necessitatis cessat haec ratio et incipit esse matrimonium maxime commodum naturae et suinde honestum, quia propter solam conservationem necessariam suscipitur; qui finis non est extrinsecus, sed intrinsecus tali actui. Atque hoc modo in illa occasione mutatur materia praecepto negativi»[133]. In sintesi, in questi esempi cambia completamente il rapporto che i comportamenti esaminati hanno con un fine intrinseco del matrimonio, e pertanto cambia l’oggetto morale dell’atto.
Possiamo dire, in definitiva, che Suárez ribadisce in ogni caso che l’obbligo delle leggi positive può cessare per il cambiamento delle sole circostanze estrinseche; mentre «in lege naturali fieri non potest ut, stante integra materia cum eisdem circumstantiis intrinsecis, propter solas extrinsecas occasiones interpretemur legem prohibentem non obbligare, quia impossibile est a tali materia suis intrinsecis conditionibus affecta separari malitiam et consequenter nec naturalem prohibitionem, etiamsi extrinsecus finis vel circumstantiae varietur»[134]. Si può affermare con assoluta e universale certezza che un atto vietato da un precetto naturale negativo, «stante eadem materia», mai potrà diventare moralmente lecito in virtù dell’epicheia[135].
Suárez si occupa infine dei precetti naturali in quanto formulati o determinati da una legge umana. Tali formulazioni positive possono essere corrette dall’epicheia, nello stesso senso in cui era stato già spiegato dal Gaetano. «Nam leges humanas saepe hoc non attendunt, sed simpliciter praecipiunt actum, v. g. reddere depositum vel solvere promissum, in quibus legibus ut sic propositis potest habere locum epiikia. Dico autem hoc intelligi in ordine ad intentionem legislatoris humani, quia saepe contingere potest ut legislator humanus nihil de tali exceptione cogitaverit, nec illam expresse intenderit, sed potius absolute et sine limitatione legem tulerit sub verbis de se comprehendentibus casum illum, et nihilominus interpretamur non comprehendisse illum. Quae interpretatio respectu voluntatis legislatoris humani est epiikia, quia est quasi emendatio eius»[136].
5.2 Il libro V del De Legibus
Suárez dedica ampio spazio allo studio dei problemi riguardanti l’epicheia nelle leggi umane. Consideriamo in primo luogo il libro V del De Legibus: “De varietate legum humanarum”[137].
Nel capitolo 23 del libro V Suárez si pone la domanda «utrum in lege irritante actum ipso facto et ante omnem sententiam habeat locum epiikia»[138]. La risposta è negativa. Riportiamo alcuni dei passi più significativi.
«Actum irritum per legem simpliciter et absolute, non posse unquam valide fieri contra verba legis, per solam epiikiam [...] Quando lex inducit substantialem formam, quia in nullo casu potest res subsistere sine tali forma: ergo in nullo etiam casu potest irritatio cessare, quae oritur ex defectu talis formae [...] [Quando la legge irritante rende una persona inabile], inhabilitas per legem inducta non potest restitui per modum epiikiae, quia epiikia ad summum potest conducere ad excusationem obligationis: ad dandam autem potestatem quam homo non habet, aut restituendam ablatam, non sufficit, quia ad hoc requiritur positivus actus qui tunc non fit, nec a superiore, nec ab aliquo qui vim habeat restituendi potestatem ablatam vel auferendi inhabilitatem inductam»[139].
Per quanto riguarda il matrimonio, viene proposta un’osservazione che mi sembra pertinente per ciò che oggi, riguardo al problema dei fedeli divorziati risposati, viene chiamato il caso “di buona fede”:
«Et hac ratione dicunt communiter doctores personam inhabilem ad matrimonium non posse propter quodcumque periculum vel metum mortis contrahere matrimonium et consummare, quia nunquam erit illud matrimonium validum propter inhabilitatem, quae non restituitur per metum vel similem occasionem»[140].
5.3 Il libro VI del De Legibus
Il libro VI del De Legibus, “De interpretatione, cessatione et mutatione legis humanae”, contiene un particolareggiato studio sull’uso dell’epicheia nelle leggi umane[141]. Suárez sembra tener presente soprattutto il diritto canonico.
Nel capitolo 6 Suárez si domanda: «utrum interdum cesset obligatio legis in particulari contra verba legis, etiamsi per principem non tollatur». Nella risposta egli distingue tra mutatio legis ab intrinseco e la mutatio legis ab extrinseco, vale a dire per un atto del superiore. Entrambe possono essere parziali (per un atto singolare, per una persona, per un periodo di tempo) o totali (ablatio totius legis). La cessatio legis universalis ab intrinseco in particulari eventu, spiega Suárez, è il caso studiato da S. Tommaso nella Summa Theologiae I-II, q. 96, a. 6 e nella II-II, q. 120 (si vedano sopra le sezioni III, 3.1 e 3.2). Siamo quindi all’epicheia, «emendatio legis propter universale»[142], che — come sappiamo — è diversa dall’interpretazione della legge oscura. Suárez espone il pensiero di S. Tommaso, di Aristotele e di alcuni canonisti sull’epicheia. Non c’è nulla di sostanzialmente nuovo. Caso mai c’è da osservare che nel libro VI Suárez si muove in un contesto giuridico, concedendo notevole attenzione alla tradizione canonistica. Malgrado le sue frequenti dichiarazioni in contrario, l’epicheia viene assimilata troppo all’interpretazione della legge, diventando un tipo di interpretazione e di mutazione della legge, il che non mi sembra sia conforme al pensiero di S. Tommaso e di Aristotele.
Il capitolo 7 del libro VI, “Quando habeat locum excusatio legis per epiikiam, seu aequitatem”, contiene alcuni elementi nuovi. Notiamo innanzitutto che l’epicheia è presentata come «excusatio ab obligatione legis». S. Tommaso afferma, invece, che «per epiichiam aliquis excellentiori modo obedit, dum observat intentionem legislatoris ubi dissonant verba legis»[143]. La divergenza sta soprattutto nell’impostazione, ed è senz’altro significativa.
Ma gli elementi nuovi stanno nel modo in cui Suárez risolve il problema, già posto dal Gaetano (si veda sezione III, 3.3), se affinché la legge possa essere corretta dall’epicheia è necessario che la legge deficiat contrarie o basta che essa deficiat negative solum[144]. Suárez ritiene che non basta che la legge deficiat negative, ma è necessario che deficiat aliquo modo contrarie, e in questo si dichiara d’accordo con S. Tommaso, Gaetano, Soto, Ledesma, Navarro, Covarrubias e Medina. Due cose sono da notare: in primo luogo, perché non basta che la legge deficiat negative; in secondo luogo, che cosa significa per Suárez deficere “aliquo modo” contrarie, perché nella clausola “aliquo modo” sono contenuti gli elementi nuovi riguardo a S. Tommaso e Gaetano.
Sul primo punto, Suárez nota che se fosse sufficiente che la legge deficiat negative, si creerebbero delle situazioni assurde e nocive. Mi sembra che il problema di fondo, come ho detto a proposito del Gaetano, sta nel necessario riferimento di ogni legge umana al bene comune, anche se in Suárez tale riferimento passa attraverso la mediazione rappresentata dall’intenzione del legislatore. «Licet ratio legis in particulari cesset negative, semper manet aliqua universalior ratio ob quam expedit etiam tunc servari legem, tum quia esset valde contrarium bono communi, si propter illam solam causam possent leges non servari, tum etiam quia per se est honesta ratio servandi legem uniformitas partium cum toto, ubi sine incommodo servari potest»[145]. E più avanti: «nam, licet legislator advertat et praevideat rationem defecturam in aliquibus vel distincte vel tantum confuse cogitatis, nihilominus potest juste velle ut indistincte obliget omnes dum contrarium impedimentum aequitate repugnans non obstiterit: ergo ita est interpretanda voluntas legislatoris: ergo ex vi illius obligabit lex»[146]. E infine: «quia jam declaratum est quo modo haec obligatio in casu pertineat ad bonum commune, quia, licet tunc subditus non participet illam utilitatem intentam per legem, participat generalem utilitatem quae est in observanda lege et in uniformitate cum suo corpore, et ex hoc capite lex illa est justa, et fundatur in ratione altiori»[147].
Passiamo al secondo punto: «quid requiritur ut ratio vel finis legis cesset contrarie»[148]. Come sappiamo, il Gaetano ritiene che «solum habere locum epiikiam, quando lex ita deficit ut servarem illam sit iniquum»[149]. Suárez considera che tale opinione è «nimis rigida et limitata»[150]. E aggiunge che, oltre all’ipotesi ammessa dal Gaetano, ci sono altre due in cui è lecito correggere la legge umana con l’epicheia:
1) La prima si verifica quando osservare letteralmente la legge umana, pur non essendo immorale, è «nimis grave aut difficile». La legge umana non obbliga «cum periculo vitae, vel alio magno incommodo: nam inde constat propter vitandum magnum gravamen licitum esse non servare legem»[151]. Viene proposto, tra gli altri, l’esempio della liceità di non fare una confessione integra quando ciò non è possibile «sine gravi periculo infamiae». Si deve notare, aggiunge Suárez, che «non solum esse alienum a prudenti legislatore iniqua praecipere, sed etiam inhumana et graviora quam humana conditio patiatur vel quam ratio communi boni postulet, ut ex dictis supra in communi de lege manifestum est. Ergo non solum peccaret lex praecipiendo quod non debet, id est, iniquum, sed etiam praecipiendo quando vel quomodo non debet, id est, obligando cum majori rigore quam par sit. Utrumque ergo peccatum legis emendat epiikia»[152].
2) La seconda ipotesi si verifica «in casu in quo non deesset potestas in legislatore ad obligandum, sed ex circumstantiis judicatur non fuisse hanc mentem eius. Quia non semper Praelatus vult obligare cum toto rigore et in omni eventu in quo posset obligare; ut, verbi gratia, non solum censetur quis excusari a praecepto jejunii propter aegritudinem gravem in qua non posset superior obligare, sed etiam propter minorem debilitatem, qua non obstante potuisset Ecclesia obligare, sed nihilominus creditur ex benignitate noluisse, quae intentio legislatoris colligi potest ex aliis circumstantiis temporis, loci et personarum, et ex ordinario modo praecipiendi cum illa moderatione subintellecta, licet non exprimatur»[153].
Alla fine del capitolo 7 Suárez afferma che «non solum posse cessare obligationem legis quando in particulari eventu esset contra bonum commune servare legem, sed etiamsi sit tantum contra bonum particularis personae, dummodo sit nocumentum grave et nulla alia ratio communis boni obliget ad illud inferendum vel permittendum; nam tunc justitia vel charitas jubet evitare tale nocumentum proximi, cui non potest lex humana rationabiliter opponi»[154]. Si noti bene che qui, come anche sopra, Suárez precisa che ciò è posssibile solo se «nulla alia ratio communis boni obliget».
Nel capitolo 8 del libro VI Suárez elabora una particolareggiata casistica sull’uso concreto dell’epicheia, discutendo, per esempio, se basta un giudizio probabile per applicare con epicheia una legge senza dover fare un ricorso all’autorità. Tracce di questa casistica si troveranno in S. Alfonso e nella manualistica. Non sembra necessario soffermarvisi.
Mettendo a confronto la posizione di Suárez con quella di S. Tommaso, ci sembra di poter dire che Suárez è meno rigido di S. Tommaso per quanto riguarda l’uso dell’epicheia, e ciò è dovuto in buona parte alla diversa impostazione di fondo. S. Tommaso si muove in una prospettiva morale, e vede la legge come un principio positivo ordinato alla virtù e quindi alla perfezione umana. Suárez si muove in ambito canonico e politico, in un periodo storico che vede nascere l’assolutismo politico, ragione per cui egli intende difendere la libertà del singolo nei confronti di una legislazione civile o ecclesiastica troppo invadente. Vedremo più avanti che non tutti gli studiosi contemporanei sono d’accordo su questa valutazione.
5.4 Il libro X del De Legibus
Il libro X del De Legibus è dedicato alla lex nova. Nel capitolo 6 Suárez si domanda «an possit aliquis in lege nova dispensare»[155]. Il problema è in pratica se il Romano Pontefice può dispensare «in jure divino evangelico»[156]. Suárez fa sua la sentenza comune dei teologi «absolute negans legem Christi divinam esse dispensabilem, etiam per Pontificem»[157]. Pensare il contrario sarebbe mettere in pericolo l’unità e l’identità della Chiesa. Così spiega Suárez:
«Nam convenientissimum fuit esse in Ecclesia Christi aliqua praecepta ita immutabilia, ut per hominem dispensari non possint; ergo talia censenda sunt illa quae ad legem a Christo institutam et latam pertinent. Antecedens patet, quia haec Ecclesia semper debet esset una, et ideo observare etiam debet uniformitatem, non solum in fide, sed etiam in religione exteriori, et in substantialibus ritibus suis, quia (juxta sententiam Augustini supra relatam) non potest aliter humana congregatio in unum corpus religionis conjungi; sed haec stabilitas et unitas Ecclesiae sine praeceptis dicto modo immutabilibus convenienter conservari non posset: ergo. Probatur minor: nam si per dispensationes possent fundamenta Ecclesiae labefactari, aut variationem aliquam recipere in diversis partibus eius, discursu temporum tanta facta esset mutatio, ut vix Ecclesiae unitas agnosceretur: ergo oportet haec praecepta quasi fundamentalia, ut sic dicam, esse prorsus invariabilia et indispensabilia»[158].
Queste parole di Suárez offrono importanti motivi di riflessione. Nel notare che se l’autorità ecclesiastica avesse un potere universale di dispensa tra qualche secolo la Chiesa potrebbe perdere completamente la sua identità, diventando in pratica irriconoscibile, Suárez si oppone ad una concezione volontaristica dell’autorità ecclesiastica, non assente nei dibattiti attuali, secondo la quale essa potrebbe fare tutto e il contrario di tutto, e se non lo fa è perché non vuole farlo. Suárez fa presente, in definitiva, che prima di pensare se è opportuno concedere questa o quella dispensa, oppure introdurre questo o quel cambiamento, è necessario chiedersi se tale cosa può essere fatta. Notiamo, infine, che Suárez precisa che «praecepta legis gratiae positivam nullam dispensationem per modum epiikiae admittere»[159], aggiungendo importanti chiarimenti per quanto riguarda i sacramenti[160].
Con l’imponente sintesi di Suárez possiamo considerare quasi conclusa l’elaborazione dottrinale che costituirà la base dello studio casistico dell’epicheia per alcuni secoli, in pratica fino ai primi decenni del nostro secolo, come vedremo nella seconda parte di questo studio.
* Pubblicato su «Acta Philosophica» VI (1997), pp. 197-236.
[1] Cfr. per esempio: K. Kuypers, Recht und Billigkeit bei Aristoteles, «Mnemosyne. Bibliotheca Classica Batava», III serie, 5 (1937), pp. 289-301; R. Egenter, Über die Bedeutung der Epikie im sittlichen Leben, «Philosophisches Jahrbuch», 53 (1940), pp. 115-127; Id., voce Epikie, in LThK, III, pp. 934 ss.; L.J. Riley, Nature and Use of Epikeia in Moral Theology, Washington 1948; J. Giers, Epikie und Sittlichkeit. Gestalt und Gestalwandel einer Tugend, in R. Hauser-F. Scholz, R., Der Mensch unter Gottes Anruf und Ordnung (Festgabe Müncker), Düsseldorf 1958, pp. 51-67; E. Hamel, La vertu de l’épikie, «Sciences Ecclésiastiques», 13 (1961), pp. 35-56; Id., Fontes graeci doctrinae de epikeia, «Periodica de re morali, canonica, liturgica», 53 (1964), pp. 169-185; Id., L’usage de l’épikie, «Studia Moralia», 3 (1965), pp. 48-81; F. D’Agostino, Epieikeia. Il tema dell’equità nell’antichità greca, Giuffrè, Milano 1973; Id., La tradizione dell’epieikeia nel medioevo latino. Un contributo alla storia dell’idea di equità, Giuffrè, Milano 1976; J. Fuchs, Epikeia circa legem moralem naturalem?, «Periodica de re morali, canonica, liturgica», 69 (1980), pp. 251-270; Id., Eccezioni - Epikeia e norme morali di legge naturale, nel suo volume Etica Cristiana in una società secolarizzata, Piemme, Roma 1984, pp. 139-155; G. Virt, Epikie - verantwortlichen Umgang mit Normen. Eine historisch-systematische Untersuchung zu Aristoteles, Thomas von Aquin und Franz Suarez, Grünewald, Mainz 1983; Id., voce Epiqueya, in H. Rotter-G. Virt, Nuevo diccionario de moral cristiana, Herder, Barcelona 1993, pp. 177-179.
[2] Cfr. K. Hilpert, Glanz der Licht und Schatten, «Herder Correspondenz», 47 (1993), pp. 623-630; G. Virt, Epikie und sittliche Selbstbestimmung, in D. Mieth (hrsg.), Moraltheologie im Abseits? Antwort auf die Enzyklika “Veritatis splendor”, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1994, pp. 203-220. Hilpert e Virt lamentano il silenzio dell’enciclica Veritatis splendor sull’epicheia, la cui considerazione consentirebbe, a loro avviso, di dare alla morale un’impostazione più realistica.
[3] D’ora in avanti sarà citata Lettera CDF 14/9/94.
[4] Cfr. G. Virt, Die vergessene Tugend der Epikie, in Th. Schneider, (hrsg.), Geschieden, Wiederverheiratet. Abgewiesen? Antworten der Theologie, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1995, pp. 267-283. Bisogna aggiungere, per completezza, che già prima della pubblicazione della Lettera CDF 14/9/94, alcuni autori avevano avanzato la stessa ipotesi. Cfr. per esempio: B. Häring, Pastorale dei divorziati. Una strada senza uscita?, Bologna 1990, p. 78; K. Demmer, Moraltheologie und Kirchenrecht. Eine neue Allianz?, in J. Römelt-B. Hidber, In Christus zum Leben befreit. Für Bernhard Häring, Wien 1992, pp. 352-366 (K. Demmer prospetta piuttosto una più accurata revisione della teoria della dispensa).
[5] Non ci occuperemo propriamente dell’aequitas canonica. Su di essa sono fornite utili indicazioni da P. Fedele, voce Equità canonica, in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano 1966, pp. 147-159, e da m.f. Pompedda, L’equità nell’ordinamento canonico, in S. Gherro, (cur.), Studi sul Primo Libro del Codex Iuris Canonici, Cedam, Padova 1993, pp. 3-33. Si tenga conto però che buona parte della riflessione sull’epicheia a partire della seconda scolastica (Suárez) concerne anche l’equità canonica.
[6] Cfr. su questo punto il completo studio di F. D’Agostino, Epieikeia..., cit. Si veda anche: E. Hamel, Fontes graeci..., cit., e M. Radin, Early Greek Concepts of Equity, in “Mnemosyne Pappoulia”, Athenai 1934, pp. 213-220.
[7] Cfr. F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 52.
[8] W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1936, vol. III, p. 371.
[9] Platone, Politico, 295 a. Se non si avverte diversamente, riportiamo la traduzione italiana pubblicata nel volume Opere, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 19923.
[10] Cfr. Politico, 297 e.
[11] Politico, 300 b; ed. cit., p. 357.
[12] Platone, Leggi, VI, 757 c; ed. cit., p. 1567.
[13] Leggi, VI, 757 b; ed. cit., p. 1567.
[14] Leggi, VI, 757 d-e; ed. cit., p. 1567.
[15] Cfr. R. Egenter, Über die Bedeutung der Epikie im sittlichen Leben, cit., p. 117; M. Müller, Der hl. Albertus Magnus und die Lehre von der Epikie, «Divus Thomas», 12 (1934), p. 167.
[16] E. Hamel, Fontes graeci..., cit., p. 177.
[17] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 61.
[18] Cfr. Leggi, 656- 657 b; 797 a-799 b.
[19] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., pp. 62-63.
[20] Per un breve chiarimento delle caratteristiche di questa figura di etica, anche nella sua contrapposizione con l’etica “della terza persona”, mi permetto di rimandare al mio manuale Etica, Le Monnier, Firenze 1992, nn. 142-149.
[21] Per un’aggiornata visione di insieme, cfr. G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale? Ricerche di filosofia morale - 1, las Roma 1996; Id., Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di S. Tommaso d’Aquino, las, Roma 1989; Id., Una filosofia morale per l’educazione alla vita buona, «Salesianum», 53 (1991), pp. 273-314; Id., Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, 2ª ed. ampliata, las, Roma 1995; M. Rhonheimer, Natur als Grundlage der Moral. Eine Auseinandersetzung mit autonome und teleologischer Ethik, Tyrolia, Innsbruck-Wien 1987; Id., Praktische Vernunft und Vernünftigkeit der Praxis. Handlungstheorie bei Thomas von Aquin in ihrer Entstehung aus dem Problemkontext der aristotelischen Ethik, Akademie Verlag, Berlin 1994; id., La prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Armando, Roma 1994; A. Macintyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988; Id., Giustizia e razionalità, Anabasi, Milano 1995; Id., Enciclopedia, Genealogia e Tradizione. Tre versioni rivali di ricerca morale, Massimo, Milano 1993; A. Rodríguez Luño, La scelta etica. Il rapporto tra libertà e virtù, Ares, Milano 1988; Id., Etica, cit.
[22] Un importante tentativo di rivalutazione del concetto di epicheia in un contesto di “etica delle norme” (“etica della terza persona”) è il lavoro precedentemente citato di G. Virt, Epikie - verantwortlichen Umgang mit Normen. Eine historisch-systematische Untersuchung zu Aristoteles, Thomas von Aquin und Franz Suarez.
[23] Per quanto riguarda il testo italiano, usiamo la traduzione di C. Mazzarelli in Aristotele, Etica nicomachea. Testo greco a fronte, Rusconi, Milano 1993. Il passo del libro V che ora studiamo (1137 a 31-1138 a 3) si trova a pp. 221-223. In alcuni casi ci discostiamo dal testo di Mazzarelli. Egli, per esempio, traduce ejpieivkeia con “equità”, traduzione che a noi sembra da evitare, per motivi che saranno spiegati man mano che progredisce lo studio. Conserviamo invece la traduzione di to; ejpieike;" con “l’equo”, perché non esiste in italiano una forma aggettivale e pronominale derivata da epicheia.
[24] Etica nicomachea, 1137 b 11-1138 a 3. Abbiamo indicato i termini greci nei casi in cui la traduzione è discutibile e anche quando essi possiedono un particolare interesse per la comprensione del senso di quanto si afferma.
[25] Etica nicomachea, II, 6, 1106 b 36. Per uno studio monografico su questo concetto mi permetto di rimandare al mio lavoro La scelta etica. Il rapporto tra libertà e virtù, Ares, Milano 1988.
[26] Cfr. In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum Expositio, Marietti, Torino-Roma 19643, lib. II, lectio 7, n. 322.
[27] Questo è stato capito perfettamente da S. Tommaso: «Secundum est actus virtutis moralis [...] Et hoc tangit cum dicit electivus, idest secundum electionem operans» (In decem libros Ethicorum..., cit., lib. II, lectio 7, n. 322). «Proprium virtutis moralis est facere electionem rectam» (Summa Theologiae, I-II, q. 65, a. 1, c.). «Omnis actus virtutis potest ex electione agi: sed electionem rectam agit sola virtus quae est in appetitiva parte animae [...] Unde habitus electivus, qui scilicet est electionis principium, est ille solum qui perficit vim appetitivam: quamvis etiam aliorum habituum actus sub electione cadere possint» (Summa Theologiae, I-II, q. 58, a. 1, ad 2).
[28] Cfr. V. Frosini, La nozione di equità, in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Giuffrè, Milano 1966, pp. 69-70.
[29] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 77, nota 22.
[30] Cfr. K. Kuypers, Recht und Billigkeit bei Aristoteles, «Mnemosyne. Bibliotheca Classica Batava», III serie, 5 (1937), p. 294.
[31] Cfr. L. Bagolini, Il problema della giustizia nel pensiero etico-politico di Aristotele, Milano 1941, p. 19.
[32] Armando Plebe traduce invece «non è rigido nella legge in ciò che porta al peggio».
[33] Cfr. F. d’agostino, Epieikeia..., cit., p. 82.
[34] Cfr. l.j. Riley, Nature and Use of Epikeia in Moral Theology, cit., p. 22.
[35] In decem libros Ethicorum..., cit., lib. V, lectio 16, n. 1090; vedi anche n. 1078.
[36] Cfr. ibid., nn. 1082, 1083 e 1086.
[37] Cfr. ibid., n. 1079; il corsivo è mio.
[38] Cfr. ibid., nn. 1083-1085.
[39] Ibid., n. 1081.
[40] Ibid., n. 1085.
[41] Ibid., n. 1086.
[42] In questo momento non ci interessa assumere il punto di vista dell’esegesi aristotelica, e domandarci se nel richiamarsi al diritto naturale S. Tommaso va oltre il testo commentato o rispetta invece la mens di Aristotele. Noi stiamo studiando il testo aristotelico in quanto esso è la base della tradizione morale cattolica, e quindi ci interessa soprattutto capire il modo in cui esso è stato letto da S. Tommaso.
[43] Ibid., n. 1089.
[44] Aristotele, Retorica, I, 13, 1374 a 26-31; 1374 b 1-21. Riportiamo la traduzione di Armando Plebe pubblicata nel volume 10 delle Opere di Aristotele, Laterza, Bari 1988, pp. 56-57.
[45] v. Frosini, La nozione di equità, cit., p. 71.
[46] Cfr. canone 19 del CIC del 1983.
[47] Così la pensa F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 96.
[48] Cfr. le ipotesi formulate da F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., pp. 98-100.
[49] Cfr. h.g. Gadamer, Verità e metodo, introduzione e traduzione di G. Vattimo, Bompiani, Milano 19852, pp. 359, 363 ss.
[50] Per un primo approccio, cfr. M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, pp. 265-276. Altre indicazioni utili in G. Ripanti, Gadamer, Cittadella Editrice, Assisi 1978; M. Renaud, Réflexions théologiques sur l’herméneutique de Gadamer, «Revue Théologique de Louvain», (1972), pp. 426-448; C. Benincasa, La struttura dell’ermeneutica in H.G. Gadamer, «La Scuola Cattolica», 98 (1970), pp. 312-326; F. Inciarte, Hermenéutica, «Atlántida», 48 (1970), pp. 649-656; A. de Waelhens, Sur une herméneutique de l’herméneutique, «Revue Philosophique de Louvain», 60 (1962), pp. 573-591; u. Regina, Anticipazioni valutative e apertura ontologica nelle teorie ermeneutiche di M. Heidegger, R. Bultmann, H.G. Gadamer, in G. Galli (a cura di), Interpretazioni e valori, Marietti, Torino 1982, pp. 139-172; E. Berti, Crisi della razionalità e metafisica, «Verifiche», 4 (1980), pp. 389-421. Sull’influsso di Gadamer nell’ermeneutica biblica si veda P. Grech, La nuova ermeneutica: Fuchs ed Ebeling, in Esegesi ed Ermeneutica. Atti della XXI settimana biblica (Associazione Biblica Italiana), Paideia, Brescia 1972, pp. 71-90.
[51] Mi sono occupato del problema, da una prospettiva generale, in Sulla fondazione trascendentale della morale cristiana, in Aa. Vv., Persona, verità e morale, Città Nuova Editrice, Roma 1987, pp. 61-78.
[52] h.g. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 376.
[53] Cfr. ibid., p. 395.
[54] Ibid., p. 360.
[55] Cfr. ibidem.
[56] Cfr. ibid., pp. 363-376.
[57] Cfr. ibid., p. 369.
[58] Ibid., pp. 369-370. In nota Gadamer spiega che per Melantone la ratio dell’epicheia è che «lex superior preferenda est inferiori».
[59] Ibid., p. 372. Non entriamo adesso nel problema esegetico del testo di Aristotele, che avrebbe bisogno di uno studio attento e particolareggiato.
[60] Con altre parole: «Nella misura in cui il vero oggetto dalla comprensione storica non sono degli eventi ma il loro ‘significato’, tale comprensione non si può adeguatamente definire parlando di un oggetto a sé stante e di un accesso ad esso da parte del soggetto. In realtà la comprensione storica implica costitutivamente che il dato storico che in essa incontriamo parla sempre al nostro presente e che deve essere capito in questa mediazione, anzi come questa mediazione». E in riferimento ai problemi giuridici e teologici, aggiunge di seguito: «L’ermeneutica giuridica non rappresenta dunque un’eccezione, ma è un esempio appropriato a far recuperare all’ermeneutica storica tutta la sua problematica, ricostituendo l’antica unità del problema ermeneutico, unità nella quale il giurista e il teologo si incontrano con il filologo» (ibid., p. 381).
[61] Di E. Betti, si veda l’importante lavoro Teoria generale della interpretazione, Giuffrè, Milano 19902.
[62] E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito (a cura di G. Mura), Città Nuova, Roma 1987, p. 92. Il testo era stato pubblicato in tedesco nel 1962.
[63] Cfr. e.d. Hirsch, Teoria dell’interpretazione letteraria, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 257-278; P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, Pratiche, Parma 1979, p. 25.
[64] Per un chiarimento della terminologia adoperata nei dibattiti attuali si veda la bibliografia citata nelle note 20 e 21.
[65] Verità e metodo, cit., p. 15.
[66] Ibid., p. 372.
[67] Il problema si ripropone in termini analoghi nei moralisti cattolici che si muovono all’interno della prospettiva normativistica moderna. Cfr. A. Rodríguez Luño, “Veritatis splendor” un anno dopo. Appunti per un bilancio (II), «Acta Philosophica», 5 (1996), pp. 70-75.
[68] Cfr. per esempio l’esposizione dell’epicheia in K. Demmer, Interpretare e agire. Fondamenti della morale cristiana, Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pp. 61 ss.
[69] Per un’analisi dei testi cfr. F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., pp. 101-109.
[70] Ibid., p. 114.
[71] Cfr. Seneca, De Clementia, II, 5, 1.
[72] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 122.
[73] H. Preisker, voci ejpieivkeia - ejpieikhv", in Kittel-Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1967, vol. III, pp. 703-710; A. Di Marino, L’epikeia cristiana, «Divus Thomas», 29 (1952), pp. 396-424; R. Bultmann, Theologie des Neuen Testaments, Tübingen 19542, pp. 560, 562, 565-566; A. von Harnack, “Sanftmut, Huld und Demut” in der alten Kirche, «Festgabe Kaftan», Tübingen 1920, pp. 113-129.
[74] F. D’Agostino, Epieikeia..., cit., p. 157.
[75] Questa notula è stata pubblicata dagli editori leonini delle Opere di S. Tommaso, volume XLVII, Sententia libri Ethicorum, vol. II, Romae 1969, p. 321, n.1. La traduzione del Grossatesta si trova anche nell’Aristoteles latinus e nell’edizione critica del commento di S. Alberto all’Etica nicomachea.
[76] Cfr. F. D’Agostino, La tradizione dell’epieikeia nel medioevo latino. Un contributo alla storia dell’idea di equità, cit., pp. 49-50. Su l’epicheia in S. Alberto si veda: E. Pérez, Valor normativo de los principios universales de derecho natural según San Alberto Magno, «Angelicum», 48 (1971), pp. 378-447; M. Müller, Der hl. Albertus Magnus und die Lehre von der Epikie, cit., pp. 165-182; E. Hamel, L’usage de l’épikie, cit., pp. 48-81; le pp. 49-54 sono dedicate a S. Alberto.
[77] Cfr. F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 51.
[78] Ora è disponibile l’edizione critica curata dall’Istituto Alberto Magno di Colonia: Alberti Magni, Opera Omnia, tomo XIV, pars I, Super Ethica Commentum et Quaestiones, I vol. a cura di W. Kübel, Münster 1968-1972. La sezione dedicata all’epicheia si trova nel commento al libro V di Aristotele, lectio 15, pp. 378-383. Citeremo quest’edizione come Super Ethica....
[79] Allo scopo di capire il pensiero di S. Alberto non è necessario soffermarsi nel mostrare che la sua analisi etimologica non è filologicamente accettabile.
[80] Super Ethica..., cit., p. 384 [il corsivo è mio].
[81] Super Ethica..., cit., p. 379.
[82] Super Ethica..., cit., p. 385.
[83] Così la pensa F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 59. Si tratta di un aspetto complicato e discutibile. Si dovrebbe valutare fino a che punto il giudizio di D’Agostino risente della interpretazione di Aristotele proposta da Gadamer, sulla quale già abbiamo espresso la nostra opinione.
[84] Cfr. Super Ethica..., cit., p. 379.
[85] Super Ethica..., cit., p. 380.
[86] Super Ethica..., cit., p. 381.
[87] S. Tommaso D’Aquino, Quaestiones Disputatae De Malo, q. 15, a. 1, ad 5.
[88] S. Alberto Magno, In Evangelium Matthaei, ed. Borgnet, Parigi 1893, tomo XXI, pp. 71-72.
[89] Cfr. E. Hamel, L’usage..., cit., pp. 52-53.
[90] Cfr. J. Dunabin, The two commentaries of Albertus Magnus on the Nicomachean Ethics, «Recherches de Théologie ancienne et médiévale», 32 (1963), p. 232; F. D’Agostino, La tradizione..., cit., pp. 70-76.
[91] F. D’Agostino, La tradizione..., cit., pp. 73-74.
[92] Ibid., p. 76.
[93] Su questo punto mi sembra fondamentale lo studio di G. Abbà Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di S. Tommaso d’Aquino, las, Roma 1983.
[94] S. Tommaso d’Aquino, Quaestiones Disputatae De Malo, q. 2, a. 6. Cfr. nello stesso senso Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 3.
[95] Cfr. lib. III, d. 33, q. 3, a. 4, q.la 5 e nello stesso libro d. 37, q. 1 art. 4.
[96] Cfr. per esempio Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 3, ad 1; q. 96, a. 2, ad 2; q. 96, a. 6, ad 3. Ma l’osservazione è ricorrente nelle opere di S. Tommaso.
[97] Cfr. M. Rhonheimer, La filosofia politica di Thomas Hobbes, Armando, Roma 1997, pp. 214 ss.
[98] S. Tommaso d’aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 58, a. 5.
[99] Typographia Poliglotta S.C. De Propaganda Fide, Roma 1891. Citiamo il testo latino del Gaetano secondo questa edizione.
[100] Cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 100, a. 8.
[101] Cfr. A. Rodríguez Luño, “Veritatis splendor” un anno dopo. Appunti per un bilancio (II), «Acta Philosophica», 5 (1996), pp. 70-75. Ovviamente il problema non diventa del tutto chiaro se non si tiene presente che S. Tommaso, e in generale le etiche delle virtù, hanno un concetto di ragione pratica molto diverso dalle etiche legaliste e normativiste quali il proporzionalismo.
[102] F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 119.
[103] Cfr. E. Gilson, Jean Duns Scot. Introduction a ses positions fondamentales, Vrin, Parigi 1952, p. 48. Su Scoto, oltre all’opera di Gilson, sono di notevole utilità: w. Höres, La volontà come perfezione pura in Duns Scoto, Liviana Editrice, Padova 1976, e B. Bonansea, L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Jaca Book, Milano 1991.
[104] Di volontarismo vero e proprio si può parlare con Ockham. L’impostazione teologica di Giovanni Duns Scoto è molto più articolata, e su di essa non è possibile dire qualcosa di sensato in poche parole.
[105] Per una descrizione particolareggiata, si veda G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale?..., cit. pp. 74-103.
[106] F. D’Agostino, La tradizione..., cit., p. 127.
[107] Cfr. ibid., pp. 127 e 156.
[108] Cfr. ibid., p. 128.
[109] Ibid., p. 159.
[110] Guglielmo di Ockham, Octo quaestiones de potestate papae, q. 1, c. 17, in Opera politica (ed. Sikes, 1940), vol. I, p. 61.
[111] Su questo problema, sono fondamentali i diversi studi di De Lagarde.
[112] Cfr. su tutto ciò F. D’Agostino, La tradizione..., cit., pp. 163-174.
[113] Ibid., p. 173.
[114] Sull’impostazione generale della morale di Suárez, cfr. G. Abbà, Quale impostazione per la filosofia morale?, cit., pp. 83-85; V. Abril Castelló, Génesis de la doctrina suareziana de la ley, «Anuario de Filosofía del Derecho», 16 (1971/1972), pp. 163-187; F. Carpintero, La génesis del Derecho Natural racionalista en los juristas de los siglos XII-XVIII, «Anuario de Filosofía del Derecho», 18 (1975), pp. 263-305; R. Ceñal, Los fundamentos metafísicos de la moral según Suárez, «Revista de Filosofía», 7 (1948), pp. 721-735; E. Elorduy, La realidad jurídico-moral. Esquema histórico, «Anales de la Cátedra Francisco Suárez», I (1961), pp. 3-29; Id., La moral suareziana, «Anuario de la Asociación Francisco de Vitoria», 6 (1943/45), pp. 97-189; C. Giacon, Suárez, Brescia 1944; E. Gómez Arboleya, La antropología de Francisco Suárez y su filosofía jurídica, «Anuario de la Asociación Francisco de Vitoria», 6 (1943/45), pp. 29-96; E. Guerrero, Sobre el voluntarismo jurídico de Suárez, «Pensamiento», 1 (1945), pp. 447-470; C. Larrainzar, Una introducción a Francisco Suárez, eunsa, Pamplona 1977; R. Macia, Juricidad y moralidad en Suárez, Oviedo 1967; L. Pereña, Metodología científica suareziana, nel vol. XIII del Corpus Hispanorum de Pace, csic, Madrid 1974, pp. XIX-XXXVII; Id., Génesis del Tratado de las Leyes, nel vol. XI del Corpus Hispanorum de Pace, csic, Madrid 1971, pp. XV-LIX; H. Welzel, Derecho natural y justicia material, Aguilar, Madrid 1957. Per ulteriori informazioni bibliografiche, cfr. J. Iturrioz, Bibliografía suareziana, «Pensamiento», 4 (1948), pp. 220-236, e P. Mújica, Bibliografía suareziana, Granada 1948. Sull’epicheia in Suárez, cfr. E. Elorduy, La Epikeia en la sociedad cambiante. Teoría de Suárez, «Anuario de Filosofía del Derecho», 12 (1967/68), pp. 229-255; E. Hamel, L’usage de l’épikie, cit., pp. 60-67; G. Virt, Epikie - verantwortlicher..., cit., pp. 172-233.
[115] Si tenga conto delle circostanze politiche: Suárez combatte energicamente la teoria del diritto divino del re.
[116] Cfr. E. Hamel, L’usage de l’épikie, cit., pp. 65-67.
[117] Cfr. Giovanni Paolo II, Enc. Veritatis splendor, n. 41.
[118] Citiamo questo capitolo secondo l’edizione critica pubblicata nel Corpus Hispanorum de Pace, csic, Madrid 1973. Il capitolo 16 si trova nel volume IV, pp. 77-98.
[119] De Legibus, II, 16, p. 81.
[120] Ibid., p. 82.
[121] Ibidem.
[122] Ibid., p. 83.
[123] Ibid., p. 84. Si noti, da una parte, come Suárez segue fin qui l’impostazione del Gaetano e, dall’altra, il rigore concettuale con il quale esamina il problema.
[124] Ibid., p. 87.
[125] Ibid., p. 87.
[126] Cfr. ibid., p. 88.
[127] Ibid., p. 88.
[128] Ibid., p. 89.
[129] Ibid., p. 89.
[130] Ibid., p. 89.
[131] Ibid., p. 90.
[132] Ibid., pp. 94-95.
[133] Ibid., p. 96.
[134] Ibid., p. 91.
[135] Cfr. ibid., p. 95.
[136] Ibid., pp. 97-98.
[137] D’ora in avanti citiamo i testi di Suárez secondo l’edizione delle Opera Omnia, Vivès, Parigi 1856. Il libro V si trova nel tomo V di questa edizione. In seguito indichiamo ibid. e la pagina di questo tomo.
[138] Si definisce legge irritante quella che stabilisce che un atto o un contratto eseguito in determinate condizioni o senza determinati requisiti è non solo moralmente illecito, ma anche invalido o, in certi casi, rescindibile.
[139] Ibid., p. 519.
[140] Ibid., pp. 519-520.
[141] Questo libro è contenuto nel tomo VI dell’Opera Omnia.
[142] Ibid., p. 27.
[143] S. Tommaso d’aquino, In decem libros Ethicorum..., cit., lib. V, lectio 16, n. 1078; vedi sopra sezione II, 2.2.
[144] Cfr. F. Suárez, De Legibus..., cit., p. 30.
[145] Ibid., p. 31.
[146] Ibidem.
[147] Ibid., p. 32.
[148] Ibidem.
[149] Ibidem.
[150] Ibidem.
[151] Ibidem.
[152] Ibid., p. 33 [il corsivo è mio].
[153] Ibidem.
[154] Ibid., p. 34 [il corsivo è mio].
[155] Siamo sempre nel tomo VI dell’Opera Omnia, p. 579.
[156] Ibid., p. 579.
[157] Ibid., p. 581.
[158] Ibid., pp. 581-582.
[159] Ibid., p. 583.
[160] Cfr. ibid., pp. 582-587.